Le parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Tessalonica («Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza», 1Ts 4,13) dicono una verità universale: a monte di ogni tristezza sta l’assenza o la delusione di una speranza.
Senza una speranza non si è in grado di vivere serenamente, perché le speranze, anche quelle più immediate o di breve durata, aprono un futuro, sostengono la nostra attesa, giustificano l’investimento della nostra libertà, l’impegno delle nostre risorse.
Quando nella vita viene meno la speranza (proviamo a far memoria delle speranze che sono andate deluse, che sono venute meno), si spegne anche la nostra attesa, non attendiamo più, non ci aspettiamo più nulla dalla vita. Se, poi, a mancare è la speranza che la morte non chiuda definitivamente la nostra esistenza, le ricadute sul modo di condurre la vita non sono di poco conto. Se, cioè, l’orizzonte della nostra speranza si restringe al tempo della nostra esistenza sulla terra, impegneremo la nostra ricerca, investiremo le nostre risorse esclusivamente su quello che accade sulla terra, su quanto ci è offerto o possiamo procurarci in questo mondo e nel tempo della vita sulla terra.
Le vicende della vita, tuttavia, s’incaricano di farci toccare con mano la precarietà delle nostre speranze.
L’Eucaristia di questa domenica indica alla nostra speranza un orizzonte più ampio e più promettente di quello di questo mondo, dell’esistenza sulla terra.
Il testo del libro della Sapienza, proclamato nella prima lettura (Sap 6,12-16), parla di una sapienza “splendida”, che “non sfiorisce”; che si lascia trovare volentieri da chi la cerca e lo premia con una vita “senza affanni”.
Il salmo responsoriale (Sal 62) presenta la serena ammissione del salmista del suo intenso desiderio di Dio («dall’aurora io ti cerco, ha sete di te la mia carne, in terra arida, assetata, senz’acqua»), la ragione di questo desiderio («Poiché il tuo amore vale più della vita») e la gioia che la ricerca di Dio gli procura («Quando nel mio letto di te mi ricordo e penso a te nelle veglie notturne, a te che sei stato il mio aiuto, esulto di gioia all’ombra delle tue ali»).
L’apostolo Paolo parla di una venuta – la seconda – del Signore Gesù, informandoci su che cosa accadrà: “rapirà” tutti – la moltitudine immensa, incalcolabile, delle persone decedute nel corso della storia dell’umanità e quelle persone che saranno ancora in vita – per portarci con sé, per “stare per sempre con lui”.
La conclusione dell’Apostolo: «Confortatevi dunque (fatevi forza, coraggio) a vicenda con queste parole» (1Ts 4,18). Cioè: quanto vi ho comunicato può rappresentare un efficace antidoto alla tristezza delle vostre speranze deluse o di breve durata e aprire il vostro cuore a una speranza più solida, affidabile.
Nel vangelo (Mt 25,1-13) Gesù rivela che la sua seconda venuta assomiglia a una festa di nozze, alla quale siamo tutti invitati. Per questo ci sollecita a non farci trovare impreparati all’appuntamento delle festa (“Vegliate, dunque”), con l’olio della speranza troppo scarso per alimentare la nostra attesa di lui. Se accadesse questo anche noi saremmo collocati nel gruppo delle ragazze “stolte” che trovano chiusa la porta del banchetto di nozze.
Ad evitare che questo accada concorre la preghiera rivolta a Dio prima di ascoltare la sua parola, dove abbiamo richiesto il suo aiuto perché “alimentiamo l’olio delle nostre lampade (la nostra speranza), perché non restino spente (in quanto alimentate solo da speranze fragili, inadeguate al nostro desiderio di vita), ma restiamo pronti, siamo nella condizione di correre incontro a Gesù, il risorto, quando come sposo verrà per farci entrare con lui alle nozze, dove non avremo più bisogno di alimentare alcuna speranza.