Per l’apostolo Paolo la discriminante tra coloro che hanno speranza e coloro che invece non hanno speranza sta nel sapere o ignorare ciò che riguarda il destino dei morti. Coloro che hanno fede in Gesù sanno che, grazie a Gesù morto e risorto, i morti non resteranno prigionieri della morte, perché Dio li radunerà con Gesù. Questo sapere della fede rappresenta il fondamento saldo alla loro speranza, perché conferisce senso e futuro all’esistenza umana che la morte tiene in scacco.
La fede ci fa sapere che l’’approdo dell’esistenza umana è la risurrezione, propiziata dall’incontro con Gesù risorto. E di questo incontro ci parla Gesù nel vangelo con la parabola delle dieci ragazze incaricate di andare incontro allo sposo. Alcune di queste – definite “sagge” – prendono con sé le lampade e una sufficiente scorta di olio, per questo sono in grado di affrontare l’inattesa emergenza del ritardo dello sposo; le altre – chiamate “stolte” – si fanno cogliere impreparate e restano escluse dalle nozze.
Per Gesù si tratta di un incontro festoso, e datore di gioia come sono le nozze. Sempre per Gesù a questo incontro bisogna giungere preparati, con le lampade accese. E perché le lampade non si spengano bisogna tenere presso di sé la scorta dell’olio.
La parabola sottolinea la necessità dell’essere pronti di fronte al Signore che viene, rinunciando a disporre della sua venuta, a calcolare il suo arrivo. Proprio perché l’arrivo del Signore – lo sposo – non è calcolabile, determinabile anticipatamente, bisogna attenderlo da subito, essere vigilanti nel presente della vita. La prontezza ad accogliere il Signore che viene qualifica il presente, la vita dei cristiani.
Il nostro incontro definitivo con il Signore risorto lo prepariamo conservando l’olio nelle nostre lampade. La lampada potrebbe rappresentare la nostra esistenza. Non ci si deve preoccupare solo della lampada, dell’esteriorità dell’esistenza, che ci è donata e non può essere vissuta fine a se stessa. Essere “sapienti” significa riconoscere che la lampada in sé non conta molto, ma ha senso e valore solo se è dotata di olio. Per questo non ci si deve preoccupare solo della cura della lampada, ma anche (soprattutto) che questa sia dotata di olio in abbondanza.
L’olio di cui dotare la nostra lampada è l’amore di Dio “riversato nei nostri cuori” (Rom 12,5). Quest’olio non è travasabile, lo si può solo bruciare, cioè offrire totalmente la nostra esistenza, viverla nella logica dell’amore ricevuto, del dono di sé.
E’ un olio inoltre che non può essere comprato, perché lo si riceve in dono e per questo va coltivato; aumenta solo bruciando, come nell’orcio della vedova di Zarepta, la quale mette a disposizione del profeta Elia l’olio che le è rimasto e che garantisce la sopravvivenza sua e del figlio (2Re 17,7-16).
Provvedere all’olio dell’amore di Dio perché non venga mai meno nella lampada della nostra esistenza, bruciarlo con un’esistenza che si consegna all’amore, al dono di sé, consente di partecipare alle nozze dell’incontro definitivo e gioioso con il Signore, di essere riconosciuti da lui, perché «l’amore riconosce solo l’amore» (A. Barban). Diversamente anche noi potremmo sentirci dire: «non vi conosco».
Accogliere con l’invito del Signore («Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora») significa non solo tenere tra le mani la lampada della nostra vita, ma conservarvi l’olio dell’amore, che brucia, fa luce attorno a noi, consentendo a noi di accogliere lo sposo che viene e allo sposo di conoscerci e di invitarci alle nozze con lui.
Questo incontro che attendiamo e al quale ci prepariamo, non con la paura di chi va incontro a una sventura, ma con la serenità e la serietà di chi sa che lo attende un futuro di gioia e di vita in pienezza, rappresenta il fondamento della nostra speranza.