XXVI domenica Tempo Ordinario (27 settembre 2020)

Le parole del profeta Ezechiele e quelle di Gesù hanno i toni della polemica. Attraverso il profeta ( Ez 18,25-28) Dio si difende dall’accusa di non agire rettamente (“Voi dite: non è retto il modo di agire del Signore”). Non è un’accusa di poco conto, perché se anche Dio non agisce con giustizia… Dio ribalta l’accusa, attribuendo al comportamento di chi lo accusa (Israele) la responsabilità di quanto accade (“Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?”).

La parola di Gesù (Mt 21,28-32) è polemica nei confronti dei “capi dei sacerdoti” e degli “anziani del popolo”. Messi a confronto con una categoria di persone (i pubblicani e le prostitute) che non godevano di alcuna stima per il loro stile di vita, per i loro comportamenti, perdono il confronto perché il loro atteggiamento verso Giovanni Battista e del suo insistente invito a cambiare vita coincide con il comportamento di uno dei figli della parabola, il quale alle parole di disponibilità (“Si, signore”) nei confronti della disposizione del padre (“Va oggi a lavorare nella vigna”) non fa seguire i fatti (“Ma non vi andò”). Dal confronto escono bene, invece, i pubblicani e le prostitute, perché hanno aderito all’invito di Giovanni. Per questo Gesù li identifica con l’altro figlio della parabola, il quale riconsidera l’iniziale indisponibilità a eseguire il comando del padre (“Non ne ho voglia”) e lo esegue (“Ma poi si pentì e vi andò”).

Duplice il messaggio di Gesù. Il primo: riconoscere che una persona può cambiare nella propria vita. Per questo nessuno può essere “catalogato” definitivamente per il suo comportamento né va     considerato anticipatamente perso. La pensa così anche Dio, come c’informa il profeta Ezechiele (“Se il malvagio si converte dalla sua malvagità e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso”)

Il secondo messaggio: la nostra disponibilità ad ascoltare il Signore, a compiere la sua volontà, non può va solo proclamata, ma deve esprimersi in fatti concreti.

La parola di Paolo nella seconda lettura (Fil 2,1-11) indica quali sono i fatti concreti che documentano la nostra reale obbedienza alla disposizione di Dio: un’effettiva pratica della carità nel nostro agire (“ciascuno di voi non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri”), l’intenzione che muove il nostro agire (“non fate nulla per rivalità o vanagloria”), la considerazione degli altri (“ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso”).

Per Paolo questo è praticabile se coltiviamo in noi gli stessi, se facciamo nostri, i “sentimenti” di Gesù, il quale non ha cercato esclusivamente il proprio interesse (“non ritenne un privilegio l’essere come Dio”), non si è messo su un piedestallo, non ha agito per una effimera gloria (“svuotò se stesso”), non si è imposto agli altri (“assumendo la condizione di servo…”), né ha solo dichiarato la sua disponibilità ad obbedire (“facendosi obbediente fino alla morte”).

I sentimenti di Gesù fanno riferimento alle disposizioni interiori di Gesù (al suo “sentire”, al suo “avere a cuore”) che si sono tradotte in concreti comportamenti, che hanno ispirato le scelte fondamentali della sua esistenza. Perché anche il nostro “sentire” sia in sintonia con quello di Gesù e perché ispiri le nostre scelte di vita, come è stato per Gesù, abbiamo chiesto al Padre che lo Spirito Santo “ci doni gli stessi sentimenti che sono in Gesù”. Una richiesta, questa, che dovrebbe essere abituale, soprattutto quando ci rendiamo conto della distanza tra i nostri sentimenti e quelli di Gesù, tra il suo modo di agire e il nostro.

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