XIV domenica Tempo Ordinario (3 luglio 2022)

La preghiera della Colletta della celebrazione eucaristica presenta due richieste. La richiesta di Dio a tutti vi battezzati: “essere pienamente disponibili all’annuncio del suo regno”. La nostra richiesta a Dio: “il coraggio apostolico e la libertà evangelica”, per essere in grado di “rendere presente in ogni ambiente di vita la parola di amore e di pace” di Dio (il suo regno).

Il Regno che Dio ci chiede di annunciare con piena disponibilità è la sua parola di pace e di amore rivolta all’umanità. Noi sappiamo che questa parola che Dio dice agli uomini e alle donne di ogni epoca e di ogni luogo, quindi anche agli uomini e alle donne di oggi, di questo territorio, è una persona, è Gesù, il Figlio amato. L’amore quindi è l’amore di Gesù, l’amore che Gesù ha per gli uomini e le  donne di sempre; la pace è la pace che Gesù risorto offre.

Noi abbiamo chiesto al Padre il coraggio e la libertà di essere portavoce di questa Parola di amore e di pace, di essere testimoni di Gesù, del suo amore e della sua pace, in ogni ambiente di vita, in ogni situazione dell’esistenza, con le persone che incontriamo.

Ci vuole coraggio perché, come ricorda Gesù nel vangelo di questa domenica (Lc10,1-12.17-20), la sproporzione tra la messe che attende di essere raccolta e gli operai disponibili si fa sempre più ampia; perché in certe “case”, in certi ambienti, in certe situazioni e con certe persone ci sentiamo come “agnelli in mezzo ai lupi”, senza efficaci difese di fronte alle parole sprezzanti, all’indifferenza, alle chiusure alimentate da pregiudizi, alle menzogne.

Ci vuole anche libertà, dalla paura dell’insuccesso, dallo scoraggiamento a motivo di numerosi tentativi falliti; dalla tentazione di affidare il buon esito della nostra testimonianza alla ricca disponibilità di mezzi, di risorse.

A rassicurarci e a garantire la libertà sta anzitutto la promessa di Gesù che “nulla potrà danneggiarci”, potrà cioè impedirci di onorare il suo mandato, perché non siamo lasciati soli (penso sia da intendere in questa direzione l’invito di Gesù ai discepoli a rallegrarsi perché “i loro nomi sono scritti nei cieli”).

Sta poi l’esperienza dell’apostolo Paolo (cfr. seconda lettura, Gal 6,14-18) di piena conformazione a Gesù Cristo crocifisso, il quale “era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7; cfr Ger 1,19). Un conformazione che Paolo non patisce come una disonorevole sconfitta, ma della quale si vanta, sulla quale fa conto nel suo ministero (“Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo”, Gal 6,14).

Le parole dell’Apostolo ci dicono che la debolezza del testimone di Gesù se vissuta nella logica della croce può diventare il luogo dove sperimentiamo la potenza dell’affidamento al Signore.

Infine ci rasserena la decisione di Gesù di inviare i suoi discepoli “a due a due”. L’indicazione è chiara: se c’è un bene che i discepoli-testimoni devono portare con sé, sul quale contare, è la fraternità.

Lo ricorderà Paolo nella lettera ai cristiani di Corinto, parlando della sua collaborazione con Tito (“Non abbiamo forse camminato ambedue con lo stesso spirito e sulle medesime tracce?”, 2Cor12,18).

La fraternità è il segno più accreditato per proclamare il Regno di Dio, per rendere presente in ogni ambiente di vita quella “parola di amore e di pace”, detta da Dio Padre, che ha assunto il volto di Gesù, si è resa presente nella storia di Gesù e continua a rendersi presente nella storia degli uomini e delle donne di ogni epoca e luogo, grazie ai suoi discepoli.

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