Veglia pasquale (26 marzo 2016)

I racconti pasquali colpiscono per alcune caratteristiche. la più vistosa è rappresentata dal fatto che non c’era alcuna aspettativa nei confronti di una soluzione positiva della vicenda di Gesù (peraltro anticipata da Gesù stesso negli annunci della sua passione), conclusa in modo drammatico. I discepoli non avevano fatto alcun preparativo per festeggiare la risurrezione del Maestro, anzi si erano barricati in casa, prigionieri della paura. E un gruppetto di donne, più coraggiose, all’alba del primo giorno dopo il sabato si erano recate al sepolcro, con profumi, per completare la sepoltura di Gesù. Gesto di commovente delicatezza nei confronti di Gesù, ma anche di inequivocabile riconoscimento della sua morte.

Per questo quando incominciava a profilarsi una situazione diversa, segnalata prima dalla scoperta del sepolcro vuoto, successivamente dalle parole di un giovane, con una veste bianca, che invitava a non cercare Gesù nel sepolcro e infine dalla comparsa dello stesso Gesù al gruppetto di donne che aveva abbandonato in fretta il sepolcro, “con timore e gioia grande”, lo schoc era stato grande, anche se non aveva prodotto nessun cambiamento nei discepoli. Lo segnalava la loro incapacità a riconoscere Gesù che li aveva avvicinati, in casa, sulla strada per Emmaus e sulla rive del lago di Galilea, dove aveva dato loro appuntamento.

La scoperta che Gesù era risorto, che le donne non si erano inventato tutto, che la persona penetrata nella loro casa-rifugio non era un fantasma, che l’estraneo entrato con loro nella locanda di Emmaus e incontrato sulle rive del lago era proprio Lui, è stata possibile perché Gesù è andato da loro, ha preso per primo l’iniziativa di “aprire” la loro mente e rianimare il loro cuore, perché diventassero credenti, cioè ritenessero possibile quello che segretamente avevano desiderato (“noi speravamo”), ma che i fatti accaduti sembravano impedire.

Nella fatica dei discepoli a riconoscere Gesù risorto, con le negative ricadute sulla loro esistenza (cfr la paura, la fuga, la delusione, la sfiducia reciproca…) riconosciamo la nostra fatica a vivere le vicende della nostra esistenza e della storia dei nostri giorni come persone che sanno della risurrezione di Gesù, che riconoscono nella risurrezione di Gesù l’avvenimento che non solo allora, ma anche oggi rappresenta il fondamento di una speranza solida, capace di contrastare la paura, di correggere le nostre letture degli avvenimenti, di sostenere l’impegno di una vita.

Come allora, anche oggi Gesù viene incontro a noi suoi discepoli, cammina con noi, ci rivolge la sua parola che può tornare a “far ardere” i nostri cuori stanchi e impauriti, spezza il pane del suo amore – nella mensa eucaristica, ma anche nelle tante mense delle nostre relazioni, delle nostre amicizie, dei gesti con cui diventiamo solidali con il dolore e la fatica degli altri o con i quali siamo avvicinati dagli altri – perché i nostri occhi “si aprano” e lo riconoscano presente in mezzo a noi, non come un morto da onorare, ma come il Signore risorto, vincitore del male che ferisce la vita degli uomini.

Lasciamoci avvicinare da Lui, lasciamo che sia Lui a ridare slancio ai nostri cuori, perché non abbiamo a ritirarci impauriti, ma restiamo nei luoghi della nostra esistenza, anche in quelli che risultano più impegnativi e scoraggianti, operando come uomini e donne di speranza e che danno speranza.

L’augurio di una “buona Pasqua”, diventa allora l’augurio che possiamo essere uomini e donne che dicono con la loro esistenza: “Veramente il Signore Gesù è risorto!”.

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