L’evangelista Giovanni dopo aver raccontato l’epilogo della morte di Gesù, spiega il senso dei questa morte citando due passi della Scrittura: “Non gli sarà spezzato alcun osso” (Sal 34,21) e “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Zc 12,10).
Anche noi vogliamo rivolgere il nostro sguardo a colui che è stato trafitto. Cosa vede questo sguardo? Lasciamo guidare il nostro sguardo dalle parole del profeta Isaia.
Il nostro sguardo vede un uomo “trafitto”, crocifisso, sfigurato dalle percosse, dalla violenza di quella morte e dal dolore (“sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo.. non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere… uomo dei dolori che ben conosce il patire come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”, Is 52,14; 53,2-3).
E’ uno sguardo, come segnala il profeta, pieno di stupore e di meraviglia, perché scopre che quell’uomo “disprezzato e reietto dagli uomini”, giudicato “percosso da Dio e umiliato”, “si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui… il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti” (Is 53,4-6).
Un sguardo, pieno di meravigli e di stupore, perché vede come quest’uomo reagisce alla violenza che gli è inferta e all’umiliazione cui è costretto: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come un Agnello condotto al macello”, Is 53,7).
Infine è uno sguardo, è qui si manifestano la meraviglia e lo stupore più grandi, che vede che quest’uomo che “si è addossato i nostri dolori e le nostre iniquità”, “giustifica molti” e che “per le sue piaghe noi [che “eravamo sperduti come un gregge”, Is 53,6] siamo guariti” (Is 53, 5.11).
Quello che il nostro sguardo ha di fronte non è semplicemente un uomo morto, un uomo che subisce una qualunque morte, ma un uomo che subisce questa morte, la morte del crocifisso.
Perché stupisce questa morte? Certamente per il carico di violenza e di sofferenza che rivela (come le esecuzioni, gli attentati dei terroristi e le violenze contro le persone, anche care, di cui ci parlano sempre più frequentemente le cronache di questi ultimi tempi), ma anche e soprattutto perché con quella morte Gesù, il Figlio di Dio, porta sui di sé il nostro peccato, le nostre colpe e perché il Padre del cielo porta su di sé il nostro rifiuto, lasciando che il Figlio muoia proprio lì, su una croce, il luogo dei “maledetti”.
Proprio per questo quella morte, che agli occhi di molti, non solo degli oppositori di Gesù, ma anche dei discepoli, forse, a volte, anche nostri, appare come la sconfitta di una persona che si è impegnata a ridare speranza alla vita delle persone, è una morte invece che dà salvezza, “guarisce”.
Dà salvezza perché ridà speranza, proprio in riferimento alla sconfitta di quel male che ai nostri occhi sembra invincibile; guarisce il nostro cuore malato di sconforto, di paura, di sospetto; la nostra libertà prigioniera della chiusura su di sé, della pretesa di essere autoreferenziale, di bastare a se stessa.
La morte di Gesù in croce quindi è una “buona notizia”, è vangelo, perché ci parla di un Dio, Padre di Gesù e nostro, che esce da casa e va incontro ai figli che se ne sono andati da quella casa, sbattendo la porta, o che in quella casa ci sono rimasti male, da servi, scontenti; ci parla di Gesù, il Figlio primogenito, che proprio perché nella casa del Padre, non ci è stato da servo, è ben contento del gesto del Padre, non rivendica nulla per sé, anzi partecipa alla festa del Padre.
La scoperta che deriva dal nostro sguardo e che suscita nuovo stupore, meraviglia, è che in quella morte noi possiamo riconoscere il volto paterno di Dio, scoprire la solidarietà fraterna del Figlio; possiamo sapere che cosa è la giustizia, la misericordia, l’amore e la dedizione.