“Noi speravamo…”

Dai racconti dei vangeli nulla lasciava pensare alla risurrezione di Gesù: le donne, il primo giorno dopo il sabato, avevano acquistato i profumi e si erano recate al sepolcro di Gesù per completare la sua sepoltura; i discepoli si erano chiusi in casa per paura dei Giudei. Nemmeno la scoperta del sepolcro vuoto e le parole di due uomini vestiti di bianco che invitavano le donne a non cercare Gesù in quel luogo di morte perché era risorto, avevano fatto ricredere i discepoli, i quali continuavano a ritenere Gesù morto e a considerare vaneggiamenti delle donne le parole di quei due uomini.

Era tale la delusione e lo scoraggiamento che quando Gesù incontra due discepoli sulla strada per Emmaus e un altro gruppo di discepoli sulla riva del lago, non viene riconosciuto; quando parla con Maria al sepolcro viene scambiato per il giardiniere e quando entra nella casa dove si trovavano gli altri discepoli viene scambiato addirittura per un fantasma.

Sembrava proprio che la bella avventura fosse finita nel peggiore dei modi, che le tante speranze si fossero definitivamente infrante sulla croce, dove Gesù era morto e nel sepolcro, dove era stato deposto.

In questa situazione Gesù prende l’iniziativa d’incontrare i suoi amici: va incontro alle donne che stanno tornando, stupite e impaurite dal sepolcro scoperto vuoto; raggiunge i due discepoli delusi in cammino verso Emmaus; entra nella casa dove si trovano gli altri pieni di paura; raggiunge un gruppetto di loro tornati da una pesca fallita. Con grande pazienza li aiuta a riconoscerlo risorto, vivo. Quando questo riconoscimento accade, la tristezza e la paura lasciano il posto alla gioia.

Ci sono giorni e situazioni della vita, quella personale e quella che condividiamo con altri uomini e con altre donne del nostro tempo, dove molto di quello che accade sembra oscurare la “belle notizia” che Gesù è risorto e far pensare invece che sia rimasto sulle croce o nel sepolcro. Siamo tentati di pensare questo quando il male, la sofferenza, le tante difficoltà di ogni genere, stazionano troppo a lungo nella nostra esistenza, quando le cronache quotidiane ci parlano con troppa insistenza della violenza che colpisce in modo irreparabile o ci informano delle stragi che non solo spezzano vite umane, ma spazzano via anche le speranze e gli sforzi di tanti uomini e donne di buona volontà per costruire un mondo più giusto e convivenze pacifiche.

Mi sono chiesto cosa può voler dire celebrare la Pasqua di Gesù in queste situazioni? Vorrei rendervi partecipi della risposta che mi ha dato serenità e che mi impedisce di considerare questa celebrazione un gesto suggerito dal calendario e imposto dal mio compito di pastore di questa chiesa di Senigallia.

Celebrare la pasqua è consentire al Signore di accostarsi a noi, di entrare nelle nostre case e nei luoghi abituali dell’esistenza, per ricordarci che Lui non è rimasto nel sepolcro, chiuso da quel masso che è il male in tutte le sue espressioni; per togliere dal nostro cuore la tentazione della resa, l’amarezza di chi si sente sconfitto e non riesce a intravedere un futuro buono e promotore di speranza; per rassicurarci che non ci lascia soli nel contrastare il male e nel promuovere il bene, la giustizia, la solidarietà, la pace.

L’augurio che rivolgo a tutti è che, celebrando la Pasqua di Gesù, la pasqua di quel Crocifisso che non è rimasto inchiodato alla croce, né deposto in un sepolcro, viviamo come uomini e donne che sperano e che danno speranza. Proprio perché Gesù è risorto.

Vescovo Franco

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