“Nel nome della misericordia”
In quel tempo, Gesù disse. “A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro. E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro. Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,27-36).
Se volessimo indicare un titolo per questo testo, potremmo dire così: “la differenza cristiana”, la differenza che mette in risalto lo specifico che i discepoli di Gesù mostrano con la loro vita. Ora, lo specifico cristiano non introduce qualcosa di nuovo, di diverso rispetto a quello che tutti i figli e le figlie d’uomo fanno, ma fa riferimento a quanto tutti, indistintamente praticano, o cercano di praticare, al meglio nella loro vita, amare. L’amore è esperienza universalmente conosciuta e praticata ed è l’esperienza che incide più di ogni altra nella vita di tutti e ne garantisce la qualità.
Nell’invito ad amare, ripetuto da Gesù ai discepoli ritroviamo la “differenza cristiana”. Un primo aspetto di questa differenza è l’abbandono della logica dello scambio (“Se amate quelli che vi amano… se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi… se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso”).
Quello che Gesù chiede ai suoi discepoli è un abbandono che si spinge fino ad amare chi ci è ostile, nemico e manifesta la propria ostilità con l’odio, con il “farci del male”; un amore che non è resistenza passiva, semplice rinuncia a vendicarsi, ma che si manifesta nel fare del bene a chi ci vuole male e nel dire-bene a chi male-dice di noi, a pregare a favore (intercedere) di chi ci maltratta.
E’ l’amore che ha condotto Padre Christian De Chergé, priore dell’Abbazia di Tibihrine, ucciso con altri sei monaci trappisti in Algeria nel maggio 1996, probabilmente da fondamentalisti islamici, a scrivere nel suo testamento: «Se mi capitasse un giorno – e potrebbe essere oggi – di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia, si ricordassero che la mia vita era “donata” a Dio e a questo paese…Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nello stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito…Di questa vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per questa gioia, attraverso e nonostante tutto. In questo “grazie” in cui tutto è detto, ormai della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, insieme a mio padre e a mia madre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e a loro, centuplo regalato come promesso!
E anche te, amico dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo “grazie”, e questo “a-Dio” nel cui volto ti contemplo.
E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due.
Amen!».
Una seconda differenza, non immediatamente percepibile, ma decisiva, è rappresentata dall’origine, dalla sorgente di questo modo di amare che fa la differenza. È un dato di fatto: noi siamo amati come figli da un Dio che largamente pratica questo tipo di amore, un amore che non si lascia scalfire, né convincere a ritirarsi, dal comportamento dei suoi figli, da quelli che si comportano da ingrati nei suoi confronti e da malvagi nei confronti degli altri, perché è misericordioso. Ora di questo amore Dio non vuole possederne l’esclusiva, ma ha deciso di parteciparlo, perché anche i suoi figli ne diventassero capaci. Ce lo ricordano due grandi amici di Gesù, Paolo («L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato», Rm 5,5) e Giovanni («Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo», 1Gv 4,19). L’amore non è “farina del nostro sacco”; noi siamo in grado di offrirlo perché ci è stato offerto. E l’amore che ci è stato offerto è lo stesso amore con cui Dio ama tutti suoi figli, indistintamente e insistentemente, a prescindere da come questi si comportano.
L’invito di Gesù ad amare i nemici può essere inteso come invito a lasciare agire in noi, nei nostri cuori e nelle nostre azioni quell’amore di Dio che ci abita, a non impedirgli di offrirsi a tutti.
Il tema della giornata Missionaria di quest’anno – “Nel nome della misericordia” – alla luce del testo evangelico indica che il compito affidato da Gesù, il Figlio mandato dal Padre a offrire il suo amore all’umanità intera, ai suoi amici è di operare in mezzo agli uomini “in nome di questo amore di Dio” che non si lascia ispirare dalla logica dello scambio, della richiesta di un ritorno. Si tratta di offrirlo in tutti i gesti e in ogni luogo dove ci troviamo a condurre la nostra vita, fino al dono di noi stessi, come ha fatto Gesù e come continuano a fare tanti nostri fratelli e sorelle nelle terre che noi chiamiamo “di missione”.