Omelia nella Messa Crismale del Giovedì Santo (Cattedrale di Senigallia, 2 aprile 2015)

Cari Sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, seminaristi, ministri straordinari della Comunione, ragazzi che quest’anno riceverete la Cresima, fedeli tutti,
in questo giorno del Giovedì santo, giorno in cui il Signore ha istituito l’Eucaristia e il sacerdozio, risuonano le parole di Isaia che Gesù ha fatto proprie nella Sinagoga di Nazareth: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione” (Lc 4,18). Sono parole che oggi ciascuno di noi, sacerdote o laico, uomo o donna, giovane o meno giovane può ripetere: lo Spirito del Signore è sopra di me. E’ lo Spirito che abbiamo ricevuto prima nel Battesimo, facendoci diventare figli di Dio, e poi nella Cresima che, attraverso l’unzione, ci ha consacrato facendoci appartenere a Cristo e rendendoci suoi testimoni. E’ lo Spirito che ci permette di rivolgerci a Dio e di chiamarlo Abbà, cioè Padre (Gal 4,6); è lo Spirito che ci dà la capacità di credere, di amare e di partecipare alla missione della Chiesa.
Se dunque è vero che l’espressione “lo Spirito del Signore è sopra di me” vale per ogni cristiano, è altrettanto vero che queste stesse parole valgono in maniera tutta particolare, speciale, per noi – vescovo, sacerdoti e diaconi – che attraverso il sacramento dell’Ordine siamo stati costituiti ministri della Chiesa, partecipi del sacerdozio di Gesù, consacrati per essere al servizio del popolo di Dio come servi e pastori, maestri e guide.
In questo giorno così significativo desidero rivolgermi soprattutto a voi, carissimi sacerdoti, perché tra il vescovo e i sacerdoti c’è un legame strettissimo in forza del sacramento dell’Ordine che ci accomuna. Mi rivolgo a voi come da padre a figlio, da fratello a fratello, pensando che, avvicinandosi la conclusione del mio mandato, questa è l’ultima volta che mi è dato di presiedere la Messa crismale, momento altissimo in cui si esprime anche visibilmente l’unità di tutto il presbiterio. Vorrei parlarvi da cuore a cuore per dirvi ciò che più mi preme anche in base al cammino che il Signore ci ha permesso di compiere insieme in questi 18 anni del mio servizio in questa amata Chiesa di Senigallia.
Ebbene sono sempre più convinto che noi siamo stati scelti, chiamati e consacrati con l’unzione del Crisma per essere santi e per aiutare il popolo di Dio ad essere santo.
Il primo servizio che abbiamo il compito di offrire ai nostri fedeli è quello della santità. Il popolo di Dio ha bisogno di presbiteri santi, che con la loro vita spirituale diano una testimonianza visibile della loro intima unione con il Signore. Noi abbiamo a disposizione la fonte prima della santità di Dio: l’Eucaristia, la liturgia delle ore e la preghiera personale. La liturgia ben preparata e l’Eucaristia celebrata con fedeltà e obbedienza alla Chiesa è la via maestra capace di testimoniare anche al popolo di Dio il nostro amore per il Signore.
La preghiera, poi, come dialogo di lode, ringraziamento e invocazione a Dio, è così importante che assume un carattere di priorità anche rispetto al “servizio delle mense” (cf. At 6,4) e a tutto il lavoro pastorale. Non si può evangelizzare se non si sta davanti al Signore, bocca a bocca con lui: questa è l’adorazione e a questo riguardo dovremmo riconoscere il dono grande dell’adorazione perpetua che nella nostra Diocesi procede ormai da sette anni, dono prezioso che va sostenuto e ravvivato. Non si dica che la preghiera spetta ai monaci mentre ai preti diocesani spetta la fatica dell’apostolato; non si dica che non c’è tempo per la preghiera perché si è presi da tante incombenze pastorali: guardiamo all’esempio di Gesù, Lui ha saputo coniugare e conciliare il tempo destinato alla predicazione, all’evangelizzazione e il tempo destinato alla preghiera. La pastorale non può essere feconda, non può produrre frutti di grazia se non è motivata, sostenuta, nutrita dal rapporto di amicizia e di intima unione con il Signore. Del resto la stessa preghiera fa parte dell’azione pastorale: come è pastorale la visita agli ammalati, il catechismo, un incontro biblico, una riunione dei genitori, così è servizio pastorale mettersi davanti al Signore e invocarlo per i bisogni dei singoli e della comunità affidata alle nostre cure.
Ma anche per quanto riguarda la nostra vita personale dobbiamo essere convinti che senza un’intimità profonda con il Signore, senza la sua grazia che va continuamente invocata, nessuno di noi è messo al riparo dalle infedeltà, dai tradimenti, dai rinnegamenti, dagli scandali che purtroppo (e con quale danno per i fedeli!) ancor oggi avvengono nella Chiesa.
Se la prima via di santità è la comunione con Cristo, la seconda via è inscindibilmente la comunione ecclesiale. L’essere in unione intima con Cristo Capo e Sposo della Chiesa ci porta a vivere con maggiore intensità la comunione ecclesiale in relazione al Vescovo, ai confratelli sacerdoti, ai diaconi, ai religiosi e alle religiose e a tutti i fedeli laici con la varietà dei loro doni e carismi che rendono bella e variegata la nostra Chiesa. Costituendo un unico presbiterio, tra sacerdoti e tra  sacerdoti e vescovo, occorre collaborare insieme nello spirito della comunione affettiva ed effettiva. La comunione presbiterale, lo sappiamo, non è spontanea, non è sempre facile: ognuno ha il suo carattere, la sua formazione, la sua esperienza, i suoi doni, i suoi difetti, i suoi “pallini”. A volte si pensa che camminando da soli sia più facile, più fecondo, non si perde tempo, non ci si arrabbia, non si deve esercitare la pazienza, non occorre regolare il passo accelerandolo o rallentandolo in base all’andatura degli altri. Eppure la comunione è necessaria e bisogna costruirla insieme: è la via fondamentale per la credibilità della missione: ricordiamo la preghiera testamentaria di Gesù: “che tutti siano uno perché il mondo creda” (Gv 17,21). L’evangelizzazione non è pensabile senza la comunione presbiterale ed ecclesiale.
Il nostro Sinodo diocesano ha molto insistito su questo aspetto ed ha indicato anche alcune scelte concrete, tra le quali quella dei Consigli pastorali parrocchiali e delle Unità pastorali. Cari confratelli, non respingiamo, ma accogliamo e facciamo fruttificare la grazia del Sinodo. Certamente occorre molta umiltà per procedere nella direzione della comunione: bisogna convincersi che nessuno è autosufficiente, nessuno può rinchiudersi nella propria autoreferenzialità, nessuno può ritenere che le proprie scelte siano le uniche valide e indiscutibili. Sulla strada della comunione ecclesiale abbiamo fatto dei passi avanti, ma ancora resta molto da fare. Il mio accorato invito è quello di non rassegnarsi allo “status quo”, ma di procedere decisamente sulla via dell’amicizia fraterna, della collaborazione e della corresponsabilità.
Cari sacerdoti, io sento il bisogno di dirvi dal profondo del cuore un grosso “grazie”: grazie per il vostro impegno e la vostra testimonianza; grazie per la generosità e la fatica, ma anche per la gioia con cui portate avanti il ministero. Mentre rinnoverete tra poco le promesse dell’ordinazione sacerdotale con le quali vi siete impegnati a dedicare la vostra vita al Signore e alla Chiesa, chiedo a tutta l’assemblea dei fedeli qui radunata di pregare per voi e per il Vescovo perché il Signore effonda su ciascuno l’abbondanza dei suoi doni, soprattutto i doni dell’amore, della gioia, della pace (Gal 5,22).
Cari fedeli, noi ministri ordinati ci affidiamo anche a voi. Voi siete la nostra famiglia, i fratelli e le sorelle, i figli e le figlie che il Signore ci ha consegnato essendo noi i vostri “padri” nella fede. Noi abbiamo bisogno di voi, come voi avete bisogno di noi: il Signore ci ha affidati reciprocamente gli uni agli altri perché ci sosteniamo a vicenda sulla via della santità. Sentiamoci responsabili di questo nostro comune cammino dietro a Cristo Signore. E non abbiamo paura, nessuno è solo su questa strada: lo Spirito del Signore è su ciascuno di noi, Egli è la nostra forza  e ci benedice.

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