Messa nell’Anno giubilare della Misericordia, animata dal movimento del Rinnovamento dello Spirito (13 marzo 2016)

Nel racconto evangelico di questa quinta domenica di Quaresima (Gv 8,3-11) il modo con cui gli scribi e i farisei si comportano nei confronti della donna adultera dice come gli uomini, anche credenti, si pongono di fronte a chi commette il male: il male che hai commesso decide in modo irrevocabile il tuo destino, ti condanna. Nell’opinione di tanti credenti anche Dio si comporta o dovrebbe comportarsi così. Questo atteggiamento dice la resa di fronte al male, la sfiducia nella possibilità di riscattarsi da esso e propone l’immagine di un Dio, che come il giudice di un tribunale umano, dà a ciascuno quanto si merita.
Gesù, rifiutando di approvare la condanna della donna, comminata in nome di Dio e rinunciando a formularne una da parte sua, dice anzitutto come Dio suo Padre si pone di fronte all’uomo che commette il male. Dio “non ha piacere della morte del malvagio”, ma che “desista dalla sua condotta e viva” (cfr Ez 18,23; 33,11); non “mostra la faccia sdegnata, perché è pietoso e non conserva per sempre la sua ira” (cfr Ger 3,12). Dio «ci riconcilia con sé mediante Cristo…non imputando agli uomini le loro colpe» (2Cor 5,19); come segnala il profeta Osea, non parla il linguaggio minaccioso dello sposo tradito (cfr 2,4-15), ma quello dello sposo, che anche di fronte all’infedeltà della sposa, non smette di parlare “al (sul) suo cuore”, così che possa rinascere l’amore nel cuore della sposa e riprendere l’Alleanza d’amore.
Il testo del profeta Isaia, proposto dalla prima lettura della Messa (Is 43,16-21), parla di un Dio determinato a compiere una “cosa nuova”, rappresentata con immagini (come “fornire acqua al deserto, fiumi alla steppa”), che la indicano come un suscitare la vita là dove le condizioni ambientali la impediscono. Un Dio che non spegne la vita, ma la risuscita, la rilancia; per questo incoraggia il suo popolo ad abbandonare il ricordo di un passato desolato, segnato dalla resistenza, dalla infedeltà al suo amore («Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche!»).
Il Dio rivelato da Gesù si riferisce a me, non a partire dalle mie prestazioni, ma dalla decisione, unilateralmente e per sempre presa da lui, di aver cura di me, di ospitarmi nella comunione trinitaria. Il mio peccato non convince il Signore a rivedere la sua decisione, ma diventa il “luogo” dove Gesù da’ seguito alla decisione di Dio («Dio ha dimostrato il suo amore verso di noi, perché mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi», Rm 5,8; cfr 2Cor 5,19). La risposta di Dio al mio peccato non è la giustizia che punisce, ma la misericordia che perdona («Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia», Rm 5,20).
Gesù col suo perdono (“neanche io ti condanno”) rompe il cerchio di morte nel quale la donna si trova, le da’ la possibilità di riprendersi la vita e ricostruirla su basi nuove («Va’ e d’ora in poi non peccare più»). Con l’invito alla donna – «Va’ e non peccare più» – Gesù  dice anche che il male che avvilisce la mia vita, che spesso deprime il mio desiderio di bene, non è invincibile e che si può prendere le distanza da esso; dice inoltre che Dio suo Padre ha fiducia nell’uomo, nella sua libertà, che raggiunta, interpellata da lui, dal suo amore che perdona, sa risorgere e prendere le distanze dal male.
Anche a me il perdono di Dio apre sempre di nuovo il futuro di un’esistenza diversa, che non sta più sotto la minaccia della condanna, ma che è accompagnata dalla cura che Dio non smette di riservarmi e che rifà nuovo il mio cuore, non più prigioniero della sua miseria, ma capace di prendere le distanze dal male. Dio non mi esonera dall’esercizio della libertà con la minaccia di una condanna o con l’azione della sua grazia che non ha rivali, ma guarisce il mio cuore, rimette in movimento la mia libertà, perché sia capace di decidere di “non peccare più”.
L’anno santo della misericordia, proclamato da Papa Francesco, ci ricorda che la risposta che il Dio, Padre di Gesù e nostro, dà al nostro peccato non è la condanna senza appello, ma la misericordia che guarisce il cuore, la “cosa nuova” che desidera realizzare nel deserto della nostra esistenza. Lasciamoci, come l’apostolo Paolo, conquistare da questa misericordia, perché anche noi come lui, ci lasciamo alle spalle un’esistenza inaridita dal nostro peccato, protesi verso quella “giustizia che viene da Dio”, dalla sua misericordia.

 

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