Messa nella Cena del Signore (Giovedì Santo 28 marzo 2024)

Questa celebrazione ci porta, come ogni Eucaristia, a un banchetto, precisamente a una Cena, l’ultima che Gesù ha fatto con i suoi discepoli, prima della sua morte. Questa celebrazione, però, a differenza delle altre, non porta la nostra attenzione solo sul gesto di Gesù, raccontato dall’apostolo Paolo nella seconda lettura (1Cor11,21-26: «Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”»), ma anche sull’altro gesto raccontato dall’evangelista Giovanni nel vangelo, la lavanda die piedi dei discepoli /Gv 13,1-15).

L’evangelista Luca c’informa che Gesù aveva tanto desiderato fare quella cena con i suoi discepoli, una cena che per il popolo d’Israele, rappresentava la Pasqua, il memoriale della liberazione del popolo dalla schiavitù d’Egitto (Gesù, «quando venne l’ora, prese posto a tavola egli apostoli con lui e disse loro: “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione», Lc 22,14-15).

Da parte sua l’evangelista Giovanni, introducendo il racconto della lavanda dei piedi ai discepoli, annota: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).

Perché “ricordiamo” (celebriamo) ogni giorno quella cena di Gesù con i discepoli? Perché in questo tardo pomeriggio ricordiamo quanto accaduto quella sera? Perché, come pregheremo a conclusione della nostra celebrazione, Dio onnipotente, il Padre di Gesù, “nella vita terrena ci nutre alla cena del suo Figlio”. La “vita terrena”, evocata nella preghiera, è quella che conduciamo ogni girono, con le gioie e le fatiche che la abitano, con le speranze che la sostengono e le sofferenze che la feriscono.

Quale “cibo” riceviamo nella cena del Signore? Ce lo rivela la preghiera della Colletta, dove, dopo aver definito l’offerta che Gesù fa della propria vita (un sacrificio), anticipata simbolicamente nell’offerta ai discepoli del pane spezzato e del calice, da parte di Gesù, durante la cena, chiediamo a Dio che “dalla partecipazione a così grande mistero attingiamo pienezza di carità e di vita”.

La carità che riceviamo “in pienezza”, non con il contagocce né in misura insufficiente per condurre la nostra esistenza in serenità e libertà, è l’amore che ha spinto Gesù a lavare, lui “il Maestro e il Signore”, a lavare i piedi ai discepoli, gesto imposto agli schiavi, ad amare i discepoli “fino alla fine” (al dono della vita). L’amore di Gesù, ricevuto in pienezza, rende piena, compiuta, la nostra esistenza, perché esistenza amata, presa in carico dal Signore e, anche perché, esistenza guidata dall’amore, impegnata a prendersi cura degli altri, con il cuore di Gesù, con il suo stile di servizio, di amore che non si risparmia.

Questo è il cibo che il Signore ci offre perché la nostra vita non patisca la fame di amore e non si chiuda in se stessa, negando il pane dell’amore a chi, per tante ragioni, ne ha bisogno e, in tanti modi, lo chiede.

Come tornare alla vita di ogni giorno dopo questa celebrazione , dopo ogni eucaristia, memoria di quell’ultima cena consumata da Gesù con i discepoli? Portando con noi questo cibo, nutrendoci di questo cibo e condividendolo con altri.

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