Messa della Cena del Signore (Giovedì Santo 13 aprile 2017)

La preghiera che abbiamo rivolto a Dio prima di metterci in ascolto della sua parola parla della consegna di Gesù, di se stesso alla morte e del “nuovo ed eterno sacrificio” alla Chiesa (a noi); parla anche di una nostra richiesta (“fa’ che dalla partecipazione a così grande mistero attingiamo pienezza di carità e di vita”).

La consegna di Gesù è quella della propria vita data in sacrificio “per noi”, a nostro favore. Quella di Gesù è un’ “offerta” (un sacrificio) per amore. Non si tratta di una passione passeggera, ma di un amore forte, come lo è quello tra due sposi (è stato riconosciuto nella preghiera iniziale dove il suo sacrificio l’abbiamo considerato come “convito nuziale del suo amore”). Un’offerta che è giunta fino a noi e della quale anche noi possiamo beneficiarne, perché questo era il desiderio di Gesù, quando quell’ultima sera raccomandò ai discepoli (“fate questo in memoria di me”) e perché da allora la comunità dei discepoli l’ha tramandata (come ricorda l’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto: “Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso).

La nostra richiesta: che l’offerta di Gesù non vada perduta, non sia sprecata. Questo non accadrà se dall’offerta di Gesù sapremo attingere la sua stessa capacità di amare (una carità piena) e quella vita piena che lui offre.

Proprio quell’ultima sera Gesù ha mostrato la qualità del suo amore con due gesti “forti”, il pane “spezzato” e il calice di vino “offerto”; l’altro gesto, la lavanda dei piedi ai discepoli,. Quei gesti Gesù non li ha improvvisati, ma preparati con l’esercizio di un amore nel quale si allenato ogni giorno e che ha rappresentato il suo stile di vita.

Con il primo gesto Gesù indicava il senso della sua morte, che ai discepoli risultava del tutto oscura e inquietante; con il secondo, schioccante, irricevibile da parte di Pietro, Gesù, considerato a ragione “il Signore”, manifestava la sua signoria nel gesto umile e imbarazzante del lavare i piedi a chi era ricevuto in casa e per questo assegnato ai servi, agli schiavi.

In questa celebrazione, accogliendo l’invito di Gesù (“vi ho dato un esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”), io ripeterò quel gesto a favore di alcune persone, che per la loro condizione di vita, chiedono che qualcuno si faccia carico di loro con un amore forte e paziente. Il mio vuole essere il gesto di una Chiesa, la nostra di Senigallia, che segue “l’esempio di Gesù”, che fa come ha fatto Lui e per questo desidera e s’impegna a farsi carico degli altri, della loro sofferenza, dai tanti nomi e dalle diverse provenienze, una chiesa che si mette al servizio di chi soffre.

Questo mettersi al servizio di chi soffre lo impariamo proprio dalla partecipazione all’Eucaristia, dove Gesù si fa carico di noi e dove la sua offerta – la propria vita data per noi – ci mette in condizioni di offrire la nostra vita per gli altri. Un’offerta fatta di tanti atteggiamenti e gesti, che ci fa uscire dalle nostre paure e chiusure, che ci sollecita ad abbandonare le nostre pigrizie e i nostri calcoli, ci rende liberi per andare incontro a chi ci chiede di farci carico della sua sofferenza, diventa uno stile di vita, proprio come lo è stato per Gesù.

Sappiamo bene come è difficile superare le paure, i pregiudizi, non cedere alle valutazioni sommarie e metterci al servizio degli altri, soprattutto quando si presentano a noi con un carico di sofferenza grande, con situazioni di vita ferita complicate.

Per questo abbiamo chiesto a Dio, il Padre di Gesù, che dalla partecipazione a questa santa Cena, “convito nuziale” dell’amore di Gesù per la sua Chiesa, noi abbiamo ad attingere quella pienezza di carità e di vita che Gesù ci offre come dono e ci affida come compito.

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