“Concedi a noi, partecipi della sua consacrazione, di essere testimoni nel mondo della sua opera di salvezza”. La richiesta rivolta a Dio ci rimanda alla nostra identità di presbiteri e al senso del nostro ministero: noi siamo stati chiamati e messi nella condizione di essere (“consacrati”) testimoni dell’opera di salvezza di Gesù, il Figlio di Dio, nel mondo.
Il “mondo” a cui siamo mandati, è il mondo nel quale stiamo vivendo, è il mondo che sta patendo una situazione devastante da ogni punto di vista. Sono state ampiamente prospettate, e alcune di queste, le stiamo già subendo, le conseguenze della pandemia in corso.
Come essere presbiteri-testimoni della salvezza di Gesù, il Figlio di Dio in questa situazione? La risposta ce la offre Gesù che legge e commenta (anche se molto brevemente) il rotolo del profeta Isaia (61,1-2) nella sinagoga di Nazareth (cfr Lc 4,16-21).
Gesù riconosce di essere stato “mandato dallo Spirito del Signore a portare il lieto annuncio”; non si considera il “titolare” della propria missione. Per questo si pone in ascolto, non di se stesso, della propria sensibilità, della personale visione della realtà, ma del Padre, in obbedienza alla sua parola, condividendo il suo disegno (“vengo o Padre, per fare la tua volontà”, così decide).
Anche noi ci riconosciamo “mandati”, scelti per questo ministero e non “titolari”. Il nostro è un ministero ricevuto, affidato. Sappiamo bene che il Signore ci ha affidato il ministero di essere testimoni della sua salvezza, non per il nostro promettente “curriculum vitae”, ma per grazia, per amore.
In questo affidamento ritroviamo tutta la sua stima e la sua fiducia verso di noi. Si tratta allora, da parte nostra, di vivere il ministero, anzitutto con gratitudine e gioia, anche in questo tempo di prova; con la consapevolezza di essere “mandati”, dal Signore e dalla sua Chiesa e che il mandato ricevuto è accompagnato dalla grazia della consacrazione (dallo Spirito del Signore) che fa di noi non dei separati, ma dei testimoni del vangelo di Gesù (il “lieto messaggio”) che salva.
Gesù poi apprende da Dio stesso, dalla sua parola, il contenuto della propria azione liberatrice. Una parola che accoglierà nel costante dialogo personale con il Padre e che scoprirà anche negli avvenimenti, negli incontri, della sua esistenza (“dalle cose che patì”, scrive l’Autore della Lettera agli Ebrei).
Anche noi siamo invitati a scoprire, a comprendere il concreto esercizio del nostro ministero nell’ascolto della Parola di Dio, un ascolto personale, nella preghiera e un ascolto condiviso, all’interno del presbiterio e con le nostre comunità.
Anche a noi la parola di Dio viene incontro nella celebrazione dell’Eucaristia e dei sacramenti, dove sono proclamate le Scritture Sante, nel quotidiano dialogo personale con il Signore e anche a noi il Signore rivolge la sua parola negli avvenimenti della storia, quella che stiamo vivendo.
Ritengo che sia questo il tipo di ascolto che dobbiamo privilegiare, soprattutto in questi tempi, rispetto all’ascolto di tante voci, di tante persone, che presumono di essere maestri, di saper interpretare meglio di altri, anche dello stesso successore di Pietro, papa Francesco, il disegno di Dio, i suoi progetti. Resistiamo alla tentazione di frequentare letture e opinioni che confermano facilmente le nostre personali visioni di Dio, del vangelo di Gesù, della Chiesa, del ministero, del mondo.
Mettendosi in ascolto della parola di Dio, come gli è consegnata nel rotolo del profeta Isaia, Gesù riconosce che i destinatari, i beneficiari, della sua missione liberatrice, sono i poveri, i prigionieri, i ciechi, gli oppressi, persone cioè che patiscono situazioni di non libertà, che feriscono drammaticamente la loro esistenza e spengono ogni speranza.
E Gesù si adopererà per dare esecuzione al “lieto annuncio” della liberazione di queste persone, della loro esistenza desolata. Una liberazione che non si arresterà solo a qualche aspetto della vita, ma risanerà l’esistenza nella sua integralità. Per questo Gesù, quando nella sua azione liberatrice si spingerà fino a offrire il perdono dei peccati, non si dimenticherà di guarire anche il corpo paralizzato della persona che ha di fronte (cfr Mc 2,1-12) e quando guarirà il corpo ferito di una persona cieca solleciterà la persona guarita a “non peccare più perché non gli accada qualcosa di peggio” (cfr Gv 5,1-14).
L’attenzione di Gesù all’intera esistenza delle persone ci sollecita a superare alcune semplificazioni nell’interpretazione del nostro ministero, emerse in questi giorni anche nel dibattito tra di noi, in verità un po’ troppo sbrigativo, come appare quello dei social, quali la maggiore importanza da dare alla “salvezza delle anime” rispetto a quella “dei corpi”. Oppure il timore che l’attenzione ai poveri, alle sofferenze concrete delle persone, o semplicemente, alle regole di comportamento suggerite dagli esperti per bloccare il contagio, releghi in secondo piano o, addirittura, faccia dimenticare Dio, l’apporto decisivo della sua grazia.
Non verrei che anche noi ci comportassimo come il sacerdote e il levita, dei quali parla Gesù nella parabola del Samaritano solidale (cfr Lc 10,29-37), i quali, desiderosi di raggiungere il Tempio per il culto a Dio, “passarono oltre” l’uomo “percosso a sangue” e “lasciato mezzo morto” ai bordi della strada e che pure loro avevano notato.
La conclusione della parabola dice con chiarezza qual è l’indicazione di Gesù.
Gesù non temeva che il prendersi cura delle persone, delle loro indigenze, anche fisiche, potesse in qualche modo distrarle da Dio suo Padre, non parlasse a sufficienza di Dio, anzi i vangeli raccontano che le persone, visto quanto succedeva grazie a Gesù, «glorificavano Dio dicendo… “Dio ha visitato il suo popolo”» (cfr Lc 7,16).
Sempre nel testo del profeta Isaia Gesù legge anche che è stato mandato a “proclamare l’anno di grazia del Signore”, la sua visita. Nel libro delle Scritture sante Dio visita il suo popolo per consolarlo e incoraggiarlo quando patisce una prova, per aiutarlo a comprendere quanto gli sta accadendo, per correggere le sue deviazioni.
Anche noi siamo mandati a proclamare con il nostro ministero “l’anno di grazia del Signore”, a consentire al Signore di visitare il suo popolo che sta affrontando una prova inaspettata e inaudita, di consolare le persone afflitte, dare coraggio a chi è sfiduciato, favorire la sapiente comprensione di quanto sta accadendo e del cammino che dovremo percorrere.
Perché questo accada, prestiamo grande attenzione alle persone delle nostre comunità maggiormente provate dalla malattia, dai lutti, dalla solitudine e in grandi difficoltà a provvedere una vita dignitosa, serena, per sé e per la propria famiglia.
In riferimento a queste ultime chiedo che anche noi come presbiteri di questa Chiesa di Senigallia sosteniamo generosamente il “Fondo di solidarietà” promosso dalla Caritas, dando ascolto all’invito dell’apostolo Paolo alla comunità di Corinto, sollecitata a soccorrere la comunità di Gerusalemme: «La vostra abbondanza supplisca la loro indigenza» (2Cor 8,14).
Vi chiedo anche di favorire in tutti i modi quel discernimento, personale e comunitario, nello Spirito, di cui parlo nella mia Lettera che vi è stata recapitata nei giorni scorsi.
Tra poco rinnoveremo le promesse che abbiamo fatto nel giorno della nostra ordinazione sacerdotale. Rinnoviamole senza riserve, senza la riserva della delusione, dello scoraggiamento, della inquietudine per quanto ci viene chiesto in questo tempo, lasciando risuonare ancora una volta nel nostro cuore le parole che Gesù risorto, sulle rive del lago di Tiberiade, disse a Pietro, che gli aveva appena confessato il suo amore sincero, ma anche fragile: «Seguimi».
Maria, la Madre della speranza, che a Cana di Galilea ha ottenuto da Gesù, suo figlio, “il vino buono” che ha consentito a una festa di nozze di proseguire e il papa S. Paolo VI (che onoriamo in questo giorno), testimone di una Chiesa “esperta in umanità”, accompagnino il cammino del nostro ministero.