Giubileo dei volontari dell’adorazione eucaristica perpetua (Domenica 5 giugno 2016)

Nella preghiera rivolta a Dio consolatore abbiamo riconosciuto che il dolore e la morte rappresentano un mistero. Noi chiamiamo mistero è tutto ciò di cui nella vita non riusciamo venirne a capo, non riusciamo a spiegare e a risolvere. Tra i tanti misteri quello della morte resta il più inquietante e devastante. Per tante ragioni: non solo perché ci appare incomprensibile, ma anche e, soprattutto, perché ci appare ingiusto. Ci sembra ingiusto dover abbandonare la vita, a volte anche troppo in fretta; riteniamo ingiusto che le persone che ci sono più care, sulle quali contiamo, ci vengano portate via, anche qui a volte troppo in fretta. La morte è un mistero devastante anche perché allunga la sua ombra sull’intera nostra esistenza, provocando paura, una paura che rende schiavi, alla quale in tanti modi cerchiamo di sfuggire.

Gli uomini e le donne che abitano la terra da sempre sono alla ricerca di una speranza che sappia resistere alla sfida di una realtà che presenta preoccupanti segnali di morte.

Oggi a cercare questa speranza non sono soltanto le persone che fuggono dai loro paesi, devastati dalla guerra e dalle violenze, ma sono anche le persone che abitano le nostre terre, dove l’esistenza appare colpita da una precarietà (negli affetti, nel lavoro, nelle diverse relazioni tra persone, tra culture e religioni) che rende sempre più problematico uno sguardo sereno e sull’esistenza e un investimento fiducioso sul futuro.

Gesù passa nella vita degli uomini e li strappa alla morte. Strappa alla morte il ragazzo, che giace nella bara e strappa alla morte anche sua madre, la quale non ha più nessuno che si prenda cura della sua estrema povertà (è vedova) e che rappresenti per lei una speranza di vita. Gesù “vede” la sofferenza dell’uomo che in tanti modi patisce la morte; “si lascia prendere, vincere da grande compassione” per quest’uomo colpito dalla morte; “dice” una parola di speranza e di vita; “tocca” i luoghi di morte dell’uomo.

Gesù non è come i tanti idoli che popolano la vita degli uomini e ai quali gli uomini continuano ad affidarsi, ma non parlano, non vedono, non sentono, non toccano, non camminano (cfr Sal 115,5ss). Gesù è l’Emmanuele, il Dio-con-noi, che cammina per le nostre strade, c’incontra, vede la nostra sofferenza e la morte che ci colpisce, patisce con noi, tocca la nostra morte, ci rivolge la parola di speranza che ci strappa dalla morte.

Per questo, sempre nella preghiera iniziale, abbiamo riconosciuto anche che il mistero del dolore e della morte è illuminato “dalla speranza che splende sul volto di Cristo”, tanto da chiedere al Dio che consola di aiutarci a “restare intimamente (fortemente) uniti a Gesù, perché solo così siamo nelle condizioni di sperimentare “in noi la potenza della sua risurrezione”.

L’essere giunti, in questo pomeriggio in Cattedrale, l’aver passato la Porta Santa, dice che non ci rassegniamo al mistero del dolore e della morte, né alla paura con la quale la morte cerca di spegnere ogni speranza, perché Gesù ha sconfitto la morte, con la sua paura, non solo per sé, ma anche per noi e perché riconosciamo che Gesù continua anche oggi a “toccare” i luoghi della nostra vita, dove la morte si rende presente, a “lasciarsi prendere da grande compassione” e a invitare anche noi a “non piangere”, a non disperare.

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