L’evangelista Giovanni, a differenza di Matteo e di Luca, non racconta la nascita né l’infanzia di Gesù, propone però una riflessione profonda sul Figlio di Dio, partendo da quando ancora non “abitava in mezzo a noi”. Il testo del IV Vangelo non possiede la vivacità degli altri racconti della nascita di Gesù, ha però il pregio di farci conoscere l’identità di quel bambino che noi ammiriamo nei nostri presepi, con il rischio di arrestarci alle emozioni che un bambino, nato in quelle condizioni, suscita in noi. Le emozioni sono importanti, ma da sole sono insufficienti a farci apprezzare il valore di quella nascita per la nostra esistenza e per la storia degli uomini.
Giovanni, prima ancora di chiamare Gesù Cristo per nome (v 17), lo presenta come il “Verbo” – la “Parola” – che sta presso Dio, che è Dio stesso, grazie al quale è stato fatto (creato) tutto quello che esiste. Gesù, quindi, è la Parola di Dio, che sta all’inizio della storia del mondo.
Fa eco a Giovanni l’autore della Lettera agli Ebrei, proposta dalla liturgia come seconda lettura, dove scrive che il Figlio è la parola che Dio rivolge a noi, “mediante il quale ha fatto anche il mondo” e che “tutto sostiene con la sua parola potente”.
Giovanni ci informa che in questa Parola “era la vita” e che questa vita “era la luce per gli uomini”. Una luce che, in qualche modo è stata contrastata, senza successo, dalle tenebre (“la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”).
Questa Parola che abitava dall’eternità “presso Dio”, “ha abbandonato” la sua abitazione e l’ha posta in mezzo alle nostre abitazioni (“venne ad abitare in mezzo a noi”). Per fare questo il Verbo di Dio “si è fatto carne”, è diventato cioè, secondo la felice espressione del Papa S. Giovanni Paolo II, “uno dei miliardi di uomini di questa terra”. Questa notizia costituisce il centro del racconto di Giovanni. Il Verbo di Dio si presenta agli uomini, i quali scoprono che è “il Figlio che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità”, e al quale il Padre si rivolge con queste parole: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato».
A questo punto il racconto dell’evangelista segnala un dramma: il mondo “non riconosce” Colui che lo ha creato; addirittura quelli di casa sua (gli uomini) “non lo accolgono”. E’ la storia di sempre, che si ripete anche oggi; anzi oggi sembra riguardare un numero sempre più crescente di persone, almeno nel nostro Occidente.
Nel dramma si apre però uno spiraglio di luce: nel mondo, tra quelli di casa sua, c’è anche chi non rifiuta “il Verbo fatto carne”, chi lo accoglie, gli fa posto nella propria vita, si lascia raggiungere dalla sua luce. A costoro è donato ciò che è non è alla loro portata: essere “figli di Dio” come lo è Lui, “generati” da Dio come Lui.
Il racconto degli inizi di Gesù Cristo, il Verbo fatto carne, si conclude con il riferimento a quanto il Figlio di Dio rende possibile: Dio, lo sconosciuto, Colui che da sempre gli uomini cercano in tanti modi di raggiungere, di comprendere, finalmente mostra il suo volto, esce dall’anonimato, si presenta al mondo, agli uomini come il Padre di Gesù e, grazie a Gesù, anche nostro.
Quali auguri di buon Natale possiamo scambiarci dopo aver ascoltato quanto l’evangelo di Giovanni ci ha riferito sul bambino di Betlemme? L’augurio che anche noi decidiamo di essere tra quelli che accolgono questo bambino, che lo riconoscono come la luce più forte di ogni tenebra, gli diano fiducia.
Un augurio che accompagniamo con la preghiera: «Padre di eterna gloria, che nel tuo unico Figlio, ci hai scelti e amati prima della creazione del mondo e in lui, sapienza incarnata, sei venuto a piantare in mezzo a noi la tua tenda, illuminaci con il tuo Spirito, perché accogliendo il mistero del tuo amore, pregustiamo la gioia che ci attende, come figli ed eredi del regno».