Esercizi spirituali per i sacerdoti della Diocesi, svolti a Greccio dal 6 al 10 Giugno 2016

Introduzione

Gli “Esercizi spirituali”, lo dice lo stesso nome, sono il tempo in cui ci si esercita nel purificare il proprio cuore, per cercare e trovare la volontà di Dio nell’ambito della propria vita.

La ricerca della volontà di Dio rappresenta lo scopo degli Esercizi spirituali. Una ricerca tesa a riconoscerla e a individuare le forme concrete della sua realizzazione.

Questa ricerca avviene con un contatto diretto con Dio stesso; è Lui che mi indica la sua volontà riguardo al mio modo di servirlo, come presbitero diocesano, in questo momento della mia esistenza.

Gli attori degli Esercizi spirituali sono  lo Spirito Santo e noi. L’azione dello Spirito è quella di indicare il cammino da compiere, il modo di vivere la mia vocazione. Lo Spirito svolge questa azione attirandoci nell’amore e nella lode di Dio e disponendoci all’obbedienza.

Noi entriamo negli esercizi spirituali, così come siamo in questo momento della nostra vita di presbiteri. Suggerisco anzitutto una domanda preliminare: quest’anno come entro negli Esercizi spirituali? Con quale animo li sto iniziando?

Inoltre mettiamo in campo, da parte nostra, alcune disposizioni, quali

  • Un ascolto della Parola di Dio, che ha in un effettivo silenzio, la condizione imprescindibile del suo reale e proficuo accadere
  • Una certa calma (non aver fretta), serenità davanti a Dio
  • Ampio spazio alla preghiera personale
  1. Come primo passo d’ingresso agli Esercizi ci poniamo in ascolto di un testo dell’apostolo, 2Tm 1,6-14

6Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani. 7Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. 8Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. 9Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, 10ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo, 11per il quale io sono stato costituito messaggero, apostolo e maestro. 12È questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti in chi ho posto la mia fede e sono convinto che egli è capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è stato affidato. 13Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù. 14Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato.

Il testo è introdotto e chiuso da un’esortazione che fa riferimento al dono di Dio ricevuto da Timoteo per l’imposizione delle mani da parte di Paolo (cfr anche 1Tm 4,14: «14Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte dei presbìteri») e al “bene prezioso” che gli è stato affidato.

Il dono ricevuto e il bene prezioso affidato fanno riferimento a un servizio a favore della comunità. Il servizio alla comunità rappresenta per Timoteo concretamente la volontà di Dio.

Paolo svolge ulteriormente l’esortazione invitando Timoteo, prima non vergognarsi riguardo al Signore (“di dare testimonianza al Signore nostro”) né riguardo a lui, al sua situazione di recluso (“di me che sono in carcere per lui”), successivamente a condividere con lui il servizio al Vangelo (“soffri con me per il Vangelo”).

Entrambe le esortazioni presentano la medesima giustificazione: Timoteo è in grado di dare  testimonianza al Signore e di non vergognarsi per la prigionia di Paolo, perché da Dio ha ricevuto la forza, la carità e la prudenza.

Per l’Apostolo il dono ricevuto viene custodito nella misura in cui lo si ravviva, lo si mantiene vivo, operativo. Questo è possibile per la grazia di Dio e collaborando con lo Spirito Santo.

L’apostolo Paolo ci suggerisce l’esercizio a cui siamo sollecitati in questi giorni: custodire e ravvivare il dono di Dio che ci è stato affidato, la fede, il ministero.

Se il primo suggerimento – “custodire” – fa riferimento al mantenimento di questo dono, il secondo – “ravvivare” – ci rimanda all’individuazione delle scelte concrete da fare nella nostra esistenza di presbiteri che onorano la volontà di Dio.

Sappiamo che questo esercizio è accompagnato, sostenuto dallo Spirito Santo e che l’ascolto obbediente dello Spirito garantirà al nostro esercizio serenità, fiducia e buoni frutti.

  1. Il percorso degli Esercizi spirituali è indicato dalle tre domande, con le relative risposte che hanno costituito la trama del discorso di Papa Francesco rivolto ai Vescovi italiani nella recente Assemblea.

«Che cosa, dunque, dà sapore alla vita del “nostro” presbitero?… È l’amicizia con il suo Signore a portarlo ad abbracciare la realtà quotidiana con la fiducia di chi crede che l’impossibilità dell’uomo non rimane tale per Dio» (Papa Francesco).

La chiamata di Pietro

(Lc 5,1-11)

«1 Mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, 2vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. 3Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca.4Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». 5Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». 6Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. 7Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. 8Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». 9Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; 10così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». 11E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono».

 Leggiamo il testo

Il contesto del racconto.

Luca, a differenza di Marco e Matteo, non colloca l’episodio all’inizio dell’attività pubblica di Gesù, ma più avanti, quando Gesù ha già tenuto la “predica” di Nazareth (4,16-27), ha già insegnato e guarito a Cafarnao (4,31-41). Se in Marco e in Matteo la chiamata è il primo gesto di Gesù e giunge improvvisa, cogliendo di sorpresa i destinatari, per i quali Gesù è ancora uno sconosciuto, in Luca la sorpresa sembra attenuata, in quanto Gesù si è già fatto conoscere con la sua parola e le sue azioni, precedendo, in certo qual modo, la risposta dei discepoli e rendendola plausibile.

La collocazione a questo punto della chiamata di Pietro e dei suoi amici rivela la preoccupazione dell’evangelista di indicare le ragioni, il fondamento ultimo della sequela dei discepoli.

La trama del racconto

+ Il racconto inizia, riferendo della folla che fa ressa attorno a Gesù, per “ascoltare la parola di Dio”  (la folla attornia Gesù non per strappargli qualche miracolo, ma per ascoltare la sua parola) e indicando il luogo , il lago di Gennèsaret”. Il lago è il luogo dove la gente di Galilea vive e lavora. E’ lo spazio della ferialità della vita.

+ I personaggi. Il protagonista del brano è Gesù, presentato mentre annuncia la parola di Dio. Attorno a Gesù “fa ressa” la folla, dalla quale, nel seguito del racconto, emergono volti precisi, identificati dal proprio nome: Simone, Giacomo e Giovanni. Gesù, nel mezzo della folla, incontra dei volti e dei nomi, persone con le quali entra in relazione.

L’interlocutore di Gesù è Pietro, la cui barca è scelta tra le altre e al quale Gesù chiede di tornare a pescare. L’imperativo – “prendi il largo” – andrebbe tradotto con “va’ nel profondo”.

“Nel profondo” ha una densità simbolica: non si tratta solo di andare al largo, ma anche, metaforicamente, di scendere nel profondo, non solo delle acque del lago, ma anche della vita, della comprensione del mistero di Gesù che si manifesta nella sua parola.

La proposta di Gesù crea a Pietro qualche problema: anzitutto perché è ritenuta inoppor­tuna (non si va a pescare in pieno giorno) e poi perché non ci sono pesci in quella zona, come segnala Pietro («abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla»).

Dietro la reazione di Pie­tro troviamo l’esperienza del pescatore, ma anche la fatica, la stan­chezza di un lavoro che non ha dato i frutti sperati, forse anche il timore di fare brutta figura di fronte a tanta gente.

Pietro si trova in una situazione delicata: se cede alla stanchezza, alla delusione, se ascolta la sua esperienza di esperto pescatore, se lascia spazio al timore di fare una fi­guraccia, si tira indietro, declina l’invito di Gesù. Decide, invece, di ri­schiare, di ascoltare non la parola della fatica, della delusione, della paura, ma un’al­tra parola, quella di Gesù, di dare fiducia a questa parola: «ma sulla tua parola getterò le reti».

Nei salmi  (pensiamo soprattutto al salmo 118) l’espressione “sulla tua parola” indica l’atteggiamento fiducioso del­l’uomo da­vanti a Dio: «Nella tua parola io confido»; «è la tua parola che mi dà vita», «luce ai miei passi è la tua parola».

Pietro ha già avuto modo di verificare la potenza della parola di Gesù (quando ha guarito la suocera dalla febbre); ora si tratta di fare un passo ulteriore nella fede, perché questa parola lo interpella personalmente, chiede di diventare parola su cui fare conto, da cui lasciarsi guidare.

La fiducia che Simone accorda a Gesù, alla sua parola, gli consente di fare l’e­spe­rienza della potenza di questa parola, di scoprire l’identità di Gesù (se prima lo aveva chiamato “Maestro”, ora gli si getta ai piedi e lo chiama “Signore”) e di rendersi conto della propria povertà (“sono un peccatore”).

Scoperta della po­tenza di Dio e della pro­pria povertà stanno insieme in Pietro: la confessione della potenza di Gesù, della sua parola, costituisce il quadro entro cui Pietro colloca la confessione della propria povertà, inadeguatezza.

La scena conclusiva (vv 10-11) chiarisce la nuova condizione di Pietro: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini».

La parola di Gesù fa di Pietro un uomo “preparato” alla missione, per­ché è un uomo che di fronte all’insuccesso, alla paura di rischiare, alla constata­zione della propria povertà, non si chiude in se stesso, non abbandona, ma si apre fiducioso alla po­tenza della parola di Gesù.

Nel testo lucano è assente l’imperativo della sequela (“Seguitemi!”); la parola di Gesù, più che una chiamata appare un annuncio profetico che prefigura la missione di Pietro, anzi la colloca nel presente (“d’ora in poi”).

Luca, per esprimere l’immagine del pescatore usa il vocabolo zorgon, composto da zoos (vivo) e agreuo (catturo). Pietro, il pescatore, è colui che “cattura vivi” gli uomini, li prende per donarli alla vita, li strappa dal mare – simbolo di ciò che minaccia l’uomo, la sua esistenza – per restituirli alla pienezza della vita offerta dall’incontro con il Signore.

La risposta di Pietro e dei suoi amici: «E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono». Luca, a differenza di Marco e di Matteo, che evidenziano la prontezza nel rispondere all’imperativo della sequela («e subito lasciate le reti, lo seguirono»), sottolinea la radicalità del distacco («lasciarono tutto e lo seguirono»).

Per il nostro evangelista la radicalità della sequela, più che nella prontezza della decisione, sta nella totalità del distacco (bisogna lasciar tutto). Luca insiste su questo aspetto nel suo vangelo: nella chiamata di Levi, conclude segnalando che Levi «lasciando tutto si alzò e lo seguì» (5,28). Il discorso sulla sequela si conclude con un’analoga sottolineatura: «Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo» (14,33).

Questa radicalità si fonda, per Luca, sulla radicalità della fede, dell’affidamento alla parola di Gesù, il Signore. Pietro si affida totalmente alla parola di Gesù, che diventa per lui promessa e garanzia del proprio futuro. Soltanto a questa condizione è in grado di lasciare tutto. Scelta che non farà l’anonimo notabile ricco, interlocutore di Gesù, al quale il Maestro proporrà di “vendere tutto quello che ha (e ancora una volta è solo Luca a indicare tutto), per “avere in eredità la vita eterna” (Lc 18, 18,18-23).

Scrive un monaco «La ragione vera sulla quale ogni discepolo può fondarsi è di essere “senza ragioni”, nel senso di non aver sicurezze, garanzie, certezze al di fuori dell’unica garanzia che ci viene offerta e che consiste unicamente nella promessa stessa di Gesù. Solo la radicalità della fede consente la radicalità della sequela e la rinuncia richiesta, prima che essere distacco dai beni è distacco dalle sicurezze personali e da tutto ciò che è presunzione di se stessi»[1].

Meditiamo la Parola

Il nostro testo racconta l’incontro tra Gesù e Pietro, un incontro dove Gesù prende l’iniziativa e Pietro si lascia guidare; Gesù e Pietro si chiamano per nome e dove la rivelazione di Gesù diventa per Pietro rivelazione della propria identità.

Ci poniamo tre domande: come il testo mi fa conoscere Gesù Cristo? Come fa riconoscere me stesso in Gesù? A quale tipo di fede la parola di Dio m’invita?

– Conoscere Gesù Cristo

Il testo manifesta Gesù come “Signore”. In che modo lo fa? Attraverso quali situazioni? Il brano presenta tre scene legate tra loro da un unico filo conduttore, costituito dalla parola di Gesù. Le scene rivelano, in progressione, diversi aspetti di questa parola.

Il primo quadro presenta Gesù che annuncia la parola di Dio e le folle che l’ascoltano, facendo ressa attorno a lui. La parola di Gesù è una parola da ascoltare, attorno alla quale raccogliersi, perché non è una parola come le altre, è una parola capace di fare chiarezza nel cuore dell’uomo, di dare significato autentico alla sua vita; una parola che l’evangelista segnala come la stessa parola di Dio.

Nel secondo quadro la parola di Gesù si rivolge a Simone, il quale prende una decisione a partire proprio da questa parola («Sulla tua parola…»). La parola di Gesù non può essere ascoltata in un orizzonte anonimo, impersonale, perché interpella personalmente, fa uscire dalla folla anonima, chiamandoci per nome; esige una decisione personale, responsabile, a volte coraggiosa. La nostra relazione alla parola di Gesù si personalizza quando diventa criterio di giudizio e di azione.

«La parola di Dio chiama ad uscire da un personale e angusto criterio di giudizio per entrare in un diverso orizzonte di discernimento, che è quello stesso di Dio. Nella sua luce imparo a giudicare la realtà, a valutare le situazioni, a guardare alla vita con lo sguardo stesso del Padre»[2].

Nel terzo quadro la parola di Gesù provoca in Simone una decisione ancor più radicale della precedente: lascia tutto e segue il Signore. La parola di Gesù non è solo criterio del discernimento, ma è anche potenza che trasforma la vita, fondamento affidabile per la libertà che decide di sé, del proprio futuro.

Gesù, il Signore, con la sua parola raggiunge Pietro in un momento difficile della vita, nel quale il pescatore di Galilea sperimenta l’insuccesso, lo incontra nel suo stesso peccato che spinge Pietro a prendere le distanza («allontanati da me, perché sono un peccatore»).

L’insuccesso nel lavoro è cifra di un fallimento più radicale, rappresentato dal peccato dell’uomo, che segnala l’assoluta incapacità da parte dell’uomo di darsi un compimento, di assicurare in modo stabile e profondo la pace alla propria esistenza.

Gesù, di fronte al tentativo di Pietro di prendere le distanze da lui, compie il movimento inverso: si avvicina con la sua parola che annulla ogni distanza e lo associa a sé nella sua azione a favore degli uomini. Quella di Gesù appare una signoria che si esprime come benedizione per l’uomo, prossimità capace di accogliere l’uomo nella sua povertà, nel suo bisogno di essere salvato e di aprirlo a un futuro nuovo, dove l’uomo può tornare ad operare con successo.

– Conoscersi in Gesù

Pietro è chiamato da Gesù alla missione proprio nel momento in cui sperimenta un fallimento e mentre si riconosce peccatore. Questo non lo potrà mai dimenticare: di essere, cioè, un peccatore raggiunto dalla misericordia di Dio; dovrà essere pescatore di uomini come è stato pescatore presso il lago, dove il sorprendente successo della pesca non è dipeso dalla sua abilità professionale, ma dalla parola di Gesù, cui lui ha dato credito.

Questo è il distacco più radicale da compiere, imparare a non confidare in se stesso, nelle proprie capacità, ma unicamente nella parola di Gesù. Pietro in seguito sarà tentato di far affidamento su di sé, sul proprio amore per il Signore (cfr la sua dichiarazione nell’ultima cena: «Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte», Lc 22,33), conoscendo però ancora una volta l’insuccesso (negherà alcune ore dopo per tre volte di conoscere Gesù).

Troviamo qui un’indicazione preziosa per evitare una presa coscienza di noi stessi, dei nostri limiti, fallimenti e delle nostre infedeltà, che prescinde dal riferimento fon­damentale alla mi­sericordia di Dio, al riconoscimento dell’affidabilità della sua parola. Quando questo riferimento è assente o diventa sfuocato, corriamo il rischio di operare una lettura di noi stessi che non è evangelica e, a volte, diventa dannosa, controproducen­te, fino a bloccare ogni decisione.

– L’obbedienza della vita

Il cammino di Pietro mostra il senso dell’itinerario credente come obbedienza. La parola di Gesù esprime tutta la propria potenza perché accolta dalla libertà di Pietro, il quale, a sua volta, può esperimentare la potenza di questa parola solo “dopo” e “perché” si è fidato di essa. Fino a che non obbedisce, non le da’ credito Pietro è quasi infastidito dalla parola di Gesù, che le appare inutile e inopportuna; nel momento e in quanto l’ascolta, le dà fiducia, scopre la sua potenza e bellezza, al punto di prendere la coraggiosa decisione di lasciare tutto.

La vicenda di Pietro dice che è l’obbedienza il luogo dell’ascolto efficace della parola di Gesù, della parola di Dio. Un testo del libro dell’Esodo lo conferma: dopo che il popolo d’Israele, raccolto ai piedi del Sinai, ha ascoltato la lettura da parte di Mosè del libro dell’alleanza, risponde: «Quanto ha detto il Signore, noi lo eseguiremo e vi presteremo ascolto» (24,7).

I due verbi appaiono invertiti rispetto a quello che si ritiene normalmente: l’ascoltare segue il fare. Questa è la struttura della relazione con la parola di Dio: la si ascolta e la si comprende pienamente solo quando ci si dispone a compierla, le si obbedisce. Solo se e quando viviamo la Parola siamo in grado di scoprirne la bellezza, gustarne il sostegno e apprezzarne la verità e l’affidabilità.

Qual’è la qualità del mio incontro col Signore? Come è il mio ascolto della sua parola: è l’ascolto impersonale di uno che resta confuso tra la folla? Oppure è un ascolto che fa della parola di Gesù criterio del giudizio e il fondamento dell’azione, che le consente di trasformare la vita, convertire il cuore, di abbandonare le paure e superare le resistenze?

[1] FR. LUCA, Chiamata dei primi discepoli (Lc 5,1-11) Lectio divina 2, Crema 1994, 17.

[2] ID, 23.

L’incontro del Risorto con i discepoli. La ripresa della sequela

(Gv 21,1-19)

1Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberiade. E si manifestò così: 2si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. 3Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. 4Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. 5Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». 6Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. 7Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. 8Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. 9Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. 10Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». 11Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. 12Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. 13Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. 14Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. 15Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». 16Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». 17Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. 18In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». 19Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

Leggiamo il testo

Il racconto di Giovanni presenta due scene

  • l’incontro di Gesù con il gruppetto di 7 discepoli sulle rive del lago di Tiberiade (vv 1-14)
  • il dialogo tra Gesù e Pietro (vv 15-19)

In entrambe le scene troviamo i verbi della sequela

  • nella prima: “Venite”
  • nella seconda “Seguimi”

“Venite a mangiare”

Gesù invita i discepoli a un pasto preparato da lui. La situazione dei discepoli:

  • “quella notte non presero nulla”. Quella dei discepoli è una situazione segnata da un duplice fallimento, quello della relazione con Gesù (tornano a fare i pescatori), quello del loro lavoro.
  • “nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano bene che era il Signore”: la situazione di una comunicazione che non parte, di un incontro bloccato.

La ripresa della sequela, dopo la separazione da Gesù provocata dalla fuga dei discepoli, avviene per iniziativa di Gesù (come la prima volta): Gesù raccoglie attorno a sé i discepoli, con un pasto dove distribuisce il cibo (pane e pesci) procurato e preparato da lui.

Per il pane che Gesù distribuisce cfr Gv 6 , dove Gesù parla di un “pane dal cielo”, dato dal Padre, un “pane vero”, che “dà la vita” (vv 32-33); successivamente si identifica in questo “pane dal cielo”: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo”. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (v 51a) e identifica il pane che lui intende dare nella “sua carne per la vita del mondo” (v 51b).

La segnalazione del v 14 («Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti») lega la manifestazione di Gesù risorto non solo alla pesca abbandonante dei discepoli, ma anche al pasto preparato da Gesù: quel pasto “rivela” Gesù risorto ai discepoli (cfr Lc 24, 30-31: «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e4 lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero»).

Il dialogo tra Gesù e Pietro

Le domande di Gesù

Più che domande Gesù pone a Pietro una sola domanda, ripetuta tre volte, con delle variazioni.

La prima volta Gesù chiede a Pietro: “Mi ami più di costoro?”. Nel testo greco il verbo utilizzato (agapao) indica un amore totale, gratuito e fedele. Gesù interroga Pietro su questo tipo di amore (totale, gratuito e fedele) e superiore a quello degli altri discepoli (“più di costoro”).

La seconda volta conserva l’interrogazione sull’amore totale, gratuito e fedele (“mi ami?”), ma non viene più istituito alcun paragone (“più di costoro”).

La terza volta cambia il tipo di richiesta: non più “mi ami?”, ma “mi vuoi bene?”. Nel testo greco il verbo utilizzato non è più agapao, ma fileo, il verbo che indica un amore costruito su una reciprocità (come l’amicizia).

Annota il card. Martini: «Mentre l’amicizia, il filein è l’amore di rapporto, di mutua comprensione, l’altro è l’amore che crea comprensione, l’amore che si dona, che è tipico dell’amore divino, che prima di essere amato, crea la possibilità di amare, rendendo l’altro capace di amare».

Le variazioni della domanda da parte di Gesù è data dal fatto che alla richiesta di un amore totale, gratuito e fedele (“mi ami?”), Pietro risponde con l’offerta di un amore che sta un gradino sotto, quello dell’amicizia (“ti voglio bene”).

Le risposte di Pietro

Più che risposte, Pietro dà un‘unica risposta, ripetuta tre volte.

In tutte tre le volte Pietro non risponde con lo stesso verbo usato da Gesù – “ti amo” (agapao) -, ma con un “ti voglio bene” (fileo). Gesù chiede un amore totale, gratuito, l’apostolo è in grado di offrire solo un amore amicale.

Inoltre nelle prime due volte la risposta è sicura: “Certo, Signore, tu sia che ti voglio bene”. Nella terza volta sparisce la sicurezza (“Certo”), resta solo una constatazione (“Signore, tu conosci tutto; tu sa che ti voglio bene”).

L’abbandono della sicurezza dice il riconoscimento da parte di Pietro che il suo amore per Gesù, alla prova dei fatti, non solo non si è rivelato totale e fedele, ma nemmeno capace di custodire il legame amicale.

La consegna di Gesù (“Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore”).

Gesù non dice a Pietro: “pasci gli agnelli”, ma «i miei agnelli». Gesù affida a Pietro il compito di assumere la responsabilità delle persone che sono di Gesù (miei), che amano Gesù e che Gesù ama (cfr gli accenti di amore profondo e affettuoso tra Gesù, il pastore buono, e coloro che lo seguono, in Gv 10,1-18).

La figura degli agnelli indica la profonda e affettuosa responsabilità per le persone, come il pastore, che nei confronti del gregge non si comporta da amministratore, contabile (mercenario), ma da custode pieno di attenzioni.

 La parola autorevole di Gesù

A conclusione del dialogo, Gesù non licenzia Pietro perché non è stato all’altezza della situazione, perché è venuto meno alla fiducia accordatagli, perché non sembra in grado di amarlo con un amore gratuito, fedele, ma lo “ri-chiama”, lo invita nuovamente a seguirlo, a stare con lui, a condividere la sua cura pastorale («Detto questo aggiunse: “Seguimi”»).

E’ significativo che il luogo di questo nuovo invito alla sequela sia ancora il lago di Tiberiade, come per la prima volta (cfr Mc 1,16).

L’incontro tra Gesù e Pietro che, come è iniziato, sembrava destinato a fallire, riprende e rilancia la relazione tra il Maestro e il discepolo. Questo perché

  • Gesù va incontro a Pietro: lo interpella e lo accoglie nella sua (limitata) disponibilità ad amarlo, lo tiene con sé;
  • Pietro va incontro a Gesù: si lascia interpellare su ciò che resta decisivo per la relazione con il Maestro, l’amore per Lui, non continua a nascondere la propria fragilità dietro una sicurezza ostentata, ma la riconosce, affidandola al Signore che “conosce tutto”, con il sapere dell’amore.

Meditiamo la Parola

Ci poniamo in ascolto della parola di Dio, scegliendo come punto di vista la crisi della sequela.

Alcuni rilievi.

  • Gesù non ci lascia soli, prende l’iniziativa di raccoglierci attorno a sé con il gesto dell’amicizia (il pasto: l’eucaristia), ci ridà fiducia con la sua parola.
  • L’eucaristia: Gesù ci offre il pane che dà vita – lui stesso – che lo rivela a noi come risorto, vivente (cfr Lc 24)
  • Il dialogo personale con il Signore, dove ci lasciamo interrogare da Lui sulla “qualità” del nostro amore per Lui, della nostra relazione con Lui, ci lasciamo confermare la sua fiducia, rinnovare il nostro cuore, dove diciamo a Lui il nostro amore sincero e fragile e dove il Signore ci invita sempre di nuovo a seguirlo .

Alla luce di Gv 21 la crisi della sequela può risultare, può diventare anche per noi luogo di

  • rivelazione del Signore, come il Dio con noi, il Vivente, “il salvatore della nostra umanità”
  • di una consapevolezza guadagnata
  • se nella vita, nel ministero, ci muoviamo da soli, restiamo a mani vuote
  • stiamo a cuore al Signore così come siamo
  • le nostre fragilità, le nostre paure, non vanno nascoste, ma presentate con fiducia a lui

Conclusione

Papa Francesco ci ha detto che è l’amicizia con il nostro Signore che dà sapote alla nostra vita di presbiteri.

 I testi che abbiamo meditato ci raccontano come l’amicizia tra Gesù e Pietro ha avviato  la sequela di Pietro, proprio nel momento in cui Pietro si sentiva del tutto inadeguato (cfr il racconto della chiamata presso il lago di Tiberiade) e l’ha riavviata, a fronte del venir meno da parte Pietro al legame amicale con Gesù (cfr il dialogo tra Gesù e Pietro sulla riva del lago).

Un testo del card. Martini spiega molto bene come e perché è avvenuta  questa ripartenza della sequela di Pietro

«Gesù ridà fiducia al suo apostolo. Pietro è passato per la prova, è stato vagliato al fuoco, purificato dai suoi turbamenti, dalle sue fragilità, dai suoi timori e può dunque sperimentare Gesù come il Dio che gli ridà fiducia; la vocazione, la prima chiamata sul lago, è ora colta come dono gratuito, non come conquista orgogliosa della propria fedeltà. Pietro, lasciato a se stesso, è solo capace di sbagliare e di continuare a cadere nell’errore. Vorrei farvi notare la finezza con cui Gesù si avvicina a Pietro. Non gli dice: tutto è passato, non pensiamoci più, mettiamoci una pietra sopra come se nulla fosse accaduto. E nemmeno: ho visto che vali ben poco, ma non importa, andiamo avanti ugualmente.

Gesù invece, agisce rimettendo in moto le forze più profonde di Pietro, quell’entusiasmo che l’aveva spinto a seguire subito Gesù, quell’amore che aveva espresso in tante occasioni. E infatti lo interroga sull’amore, restituendogli la fiducia in se stesso, facendogli comprendere che il suo sguardo misericordioso va al di là di quanto è accaduto, penetra nel profondo del cuore rinnovando il suo amore… E’ dunque l’esperienza di un amore grande che interroga Pietro sull’amore, facendo sgorgare in lui i dinamismi segreti, più veri della sua negligenza, della sua infedeltà, della sua oscurità. Possiamo dire che Gesù si manifesta, sul lago di Tiberiade, come salvatore dell’umanità di Pietro. Un’umanità che poteva essere schiantata dal triplice rinnegamento, che poteva diventare frustrata e sfiduciata per il resto dei suoi anni, ripiegata su di sé; Gesù la riprende dalle macerie, la risveglia, la ricostituisce»[1].

[1] Da Le confessioni di Pietro, Casale M. 1992, 64-65.

«Per chi impegna il servizio il nostro presbitero? La domanda, forse, va precisata. Infatti, prima ancora di interrogarci sui destinatari del suo servizio, dobbiamo riconoscere che il presbitero è tale nella misura in cui si sente partecipe della Chiesa, di una comunità concreta di cui condivide il cammino».

La precisazione del Papa: in compagnia di chi il presbitero svolge il ministero? Nella risposta Papa francesco indica il popolo di Dio e il presbiterio

“A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune”

(1Cor 12,7)

Leggiamo il testo

L’espressione appartiene al cap 12 della prima lettera che Paolo invia ai cristiani di Corinto, dove l’Apostolo affronta la questione dei carismi, presenti in abbondanza in quella comunità, ma portatori anche di tensioni.

Nel cap 12 possiamo individuare due parti: una prima comprende i vv 1-11, una seconda fa riferimento ai vv 12-31a.

Prima parte (vv 1-11)

Dopo una breve introduzione (vv 1-3) dove viene introdotto l’argomento del capitolo (v 1), Paolo affronta il tema dei carismi (“i doni dello Spirito”) secondo due prospettive

  • l’ unica sorgente:  i vari carismi (i doni gratuiti, imprevedibili) provengono dallo stesso Spirito; i vari ministeri (i servizi svolti nella comunità) provengono dallo stesso Signore; le varie attività (la creatività che questi doni esprimono) provengono da un solo Dio  «che opera tutto in tutti» (vv 4-6).
  • l’unica destinazione: “il bene comune” (v 7)

«L’unica origine dei diversi doni è dunque ritrovata nel mistero stesso della Trinità. Come unica è l’origine dei carismi, così unica è la loro destinazione: “il bene comune”, cioè l’edificazione dell’unica Chiesa»[1].

1Riguardo ai doni dello Spirito, fratelli, non voglio lasciarvi nell’ignoranza. 2Voi sapete infatti che, quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare senza alcun controllo verso gli idoli muti. 3Perciò io vi dichiaro: nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire: «Gesù è anatema!»; e nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo. 4Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; 5vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; 6vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. 7A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: 8a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; 9a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; 10a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. 11Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.

Seconda parte (vv 12-31)

Viene illustrato il paragone del corpo e delle membra (vv 12-27); offerto un elenco di carismi dove spiccano le figure degli apostoli, dei profeti e dei maestri (vv 28-30). Infine, la conclusione (v 31) che apre sui capp 13-14.

Il paragone del corpo e delle membra è sviluppato in due parti:

  • vv 12-20: il tipo di rapporto che unisce corpo e membra
  • vv 21-27: la complementarietà tra le membra, per cui nessuna è inutile.

vv 12-20

12Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. 13Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito. 14E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. 15Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. 16E se l’orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. 17Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato? 18Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. 19Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? 20Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo.

La tesi: «E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra» (v 14), ripresa al v 20: «molte sono le membra, ma uno solo è il corpo».

Il paragone del corpo (unicità del corpo e molteplicità delle membra) al v 12 è riferito a Cristo (“così anche il Cristo”). Tuttavia lo stretto rapporto con il v 13 – introdotto da un “infatti” esplicativo – e l’inclusione con il v 27: («Ora voi siete corpo di Cristo») chiariscono che la realtà intesa nel paragone è la comunità cristiana, indicata nel v 13 con il “noi tutti” e nel v 27 con il “voi”.

In che modo i credenti formano un unico corpo?

La risposta è data dal v 13: «Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito».

Il sacramento del battesimo, in cui operatore principale è lo Spirito, fa dei “tutti” un “solo corpo”, dove scompaiono le differenze precedenti, etniche (Giudei o Greci) e legate alla condizione di vita (schiavi o liberi), perché “tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito”.

vv 21-27

21Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». 22Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; 23e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, 24mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, 25perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. 26Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. 27Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra.

La complementarietà delle membra in un corpo è sostenuta da Paolo censurando la pretesa di due parti del corpo – l’occhio e la testa, ritenute le più importanti – di rivendicare un’autosufficienza (“Non ho bisogno di te… di voi”) e contestando l’opinione che alcune parti del corpo – le più deboli e quelle che sono ritenute meno onorevoli – non siano necessari come le altre. L’Apostolo conclude la sua argomentazione

  • ricordando la disposizione di Dio: «ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre» (vv 24-25)
  • indicando le conseguenze per la comunità: un legame solidale: «Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato tutte le membra gioiscono con lui» (v 26)
  • applicando il paragone del corpo alla comunità di Corinto: «Voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra» (v 27).

vv 28-30: elenco di carismi

28Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. 29Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? 30Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?

Conclusione

31Desiderate invece intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.

Meditiamo la Parola

L’apostolo Paolo si trova nuovamente di fronte a tensioni presenti nella comunità di Corinto, provocate non più dalla polemica tra i diversi gruppi che si rifanno a persone carismatiche della comunità (cfr capp 1-3), ma a un certo modo di intendere i carismi. Paolo nel suo intervento evidenzia

  • l’origine dei molteplici carismi: Dio, lo Spirito
  • la destinazione dei carismi personali: il bene comune, la comunione ecclesiale

Se la varietà dei carismi dice la libertà dello Spirito, la loro destinazione – il bene comune – vincola i destinatari dei doni. Lo Spirito, quindi, è garante non solo della molteplicità dei carismi (che resta perciò una realtà positiva), ma anche della loro destinazione – il bene comune – (che quindi non andrà intesa  come un paletto, un ostacolo alla varietà dei doni).

La metafora del unico corpo, dove la molteplicità delle membra non attenta all’unità e dove un solo membro non rappresenta l’intero corpo, così nel corpo di Cristo, che è la Chiesa, un carisma, un ministero, non può avanzare la pretesa di animare il corpo di Cristo.

Il richiamo dell’Apostolo ha una ricaduta importante sul modo di servire la comunione ecclesiale: la mia persona, il carisma che lo Spirito del Risorto mi dona, il ministero che mi è affidato, le attività che svolgo, non sono le uniche ed esclusive risorse della Chiesa, perché anche altre persone, altri carismi e ministeri offrono un contributo decisivo al comunione ecclesiale, alla testimonianza del Vangelo di Gesù. Per questo

  • non posso procedere in autonomia, come libero battitore, come la mano che vuole agire staccata dal corpo
  • devo imparare ad apprezzare l’apporto di altri, riconoscendone il servizio alla comunione
  • devo creare condizioni concrete per un lavoro comune, condiviso (cfr la collaborazione delle varie membra di un corpo)

– il superamento delle chiusure suggerite dall’invidia

– l’abbandono di ogni forma di arrogante invadenza (“posso fare tutto io, posso arrivare a tutto, per cui di te non c’è bisogno)

– il criterio dell’umiltà, per cui alle componenti più deboli, più marginali della comunità, è riconosciuto un ruolo importante nel servizio alla comunione.

Nella risposta alla seconda domanda posta dal Papa nel suo recente discorso ai Vescovi italiani troviamo una concreta applicazione di quanto Paolo scrive ai cristiani di Corinto:

Il popolo fedele di Dio rimane il grembo da cui egli è tratto, la famiglia in cui è coinvolto, la casa a cui è inviato…Colui che vive per il Vangelo, entra così in una condivisione virtuosa: il pastore è convertito e confermato dalla fede semplice del popolo santo di Dio, con il quale opera e nel cui cuore vive. Questa appartenenza è il sale della vita del presbitero; fa sì che il suo tratto distintivo sia la comunione, vissuta con i laici in rapporti che sanno valorizzare la partecipazione di ciascuno. In questo tempo povero di amicizia sociale, il nostro primo compito è quello di costruire comunità; l’attitudine alla relazione è, quindi, un criterio decisivo di discernimento vocazionale.

Le figure proposte da Papa Francesco – grembo, famiglia, casa – sono figure “forti” e dicono che il rapporto che lega un pastore alla propria comunità non è burocratico, funzionale, ma profondo e decisivo per la qualità del suo stesso ministero, dove si intrecciano in una relazione circolare

  • una specie di dipendenza generativa del pastore dalla comunità, nel senso che la comunità – il popolo di Dio – “forma” il suo pastore, educa la sua umanità, dà senso alla sua esistenza (la figura del grembo)
  • l’habitat del pastore, dove non si vive da estranei, ma si viene coinvolti affettivamente ed effettivamente nelle vicende, nelle situazioni delle persone (la figura della famiglia)
  • la destinazione del ministero di un pastore, impegnato a “costruire” quel luogo ospitale dove ci si accoglie a vicenda, e ci si presta il servizio della carità nelle sue molteplici espressioni e atteggiamenti (la figura della casa).

[1] PP. CASPANI, Corinto: il pane condiviso, EDB, Bologna 2011, 20.

«Allo stesso modo, per un sacerdote è vitale ritrovarsi nel cenacolo del presbiterio. Questa esperienza – quando non è vissuta in maniera occasionale, né in forza di una collaborazione strumentale – libera dai narcisismi e dalle gelosie clericali; fa crescere la stima, il sostegno e la benevolenza reciproca; favorisce una comunione non solo sacramentale o giuridica, ma fraterna e concreta. Nel camminare insieme di presbiteri, diversi per età e sensibilità, si spande un profumo di profezia che stupisce e affascina. La comunione è davvero uno dei nomi della Misericordia».

 Salmo 133

La fraternità, frutto della benedizione di Dio e luogo in cui la benedizione di Dio si rende presente

 1Ecco, com’ è bello e com’ è dolce

che i fratelli vivano insieme!

2 È come olio prezioso versato sul capo,

che scende sulla barba, la barba di Aronne,

che scende sull’orlo della sua veste.

3 È come la rugiada dell’Ermon,

che scende sui monti di Sion.

Perché là il Signore manda la benedizione,

la vita per sempre.

Il sottotitolo indica i due registri con i quali intendiamo meditare il testo biblico.

Leggiamo il testo

Struttura del salmo

– Il salmo si apre con un’esclamazione di gioia, che annuncia un fatto di grande valore: «Ecco, com’ è bello  e com’ è dolce che i fratelli vivano insieme!»

– Prosegue con due immagini che spiegano la fraternità: l’olio e la rugiada: «E’ come olio prezioso versato sul capo, che scende sulla barba, la barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste. E’ come la rugiada dell’Ermon, che scende sui monti di Sion».

– Si conclude con una sentenza che dice il valore teologico della fraternità: «Perché là il Signore manda la benedizione, la vita per sempre».

L’esclamazione di gioia – «com’ è bello  e com’ è dolce!» – evidenzia la bellezza della fraternità, caratterizzata dal movimento del discendere. Le due immagini utilizzate per indicare la bellezza della fraternità – l’olio prezioso e la rugiada – hanno in comune il fatto che discendono. Per tre volte si parla di questa discesa: dell’olio sulla barba di Aronne, sull’orlo della sua veste; della rugiada sui monti di Sion.

Le immagini dell’olio e della rugiada, centrali nel salmo, rimandano sia alla fraternità con cui il salmo inizia, che alla benedizione con cui il salmo si chiude. Il conclusivo cui è destinata la benedizione di Dio rinvia non solo a un luogo – Gerusalemme, il Tempio – ma anche all’esperienza della fraternità: è , nella fraternità, che il Signore dona la sua benedizione.

L’olio e la rugiada presentano anzitutto significati naturali, cosmici. L’olio può essere gustato dai nostri diversi sensi: risulta saporoso per il gusto, profumato per l’olfatto; è tonificante per il corpo. L’olio è anche un medicinale, in grado di conferire salute e forza. Nella cultura orientale è segno di ospitalità e, quindi, di affetto, di gioia e di calore.

La rugiada è percepita come freschezza, capace di conferire benessere a tutta la persona.

Nella tradizione biblica l’olio e la rugiada assumono anche un significato sacrale.

Nel nostro salmo si fa riferimento a un olio particolare, quello che scende sulla barba e sulla veste di Aronne. Si tratta dell’olio della consacrazione sacerdotale, versato, secondo il rituale previsto da Es. 30, sul capo del sommo sacerdote durante la sua ordinazione. Il tragitto dell’olio, dal capo lungo tutta la veste, rivela un significato simbolico. Il testo ebraico non parla di orlo, ma di bocca della veste, cioè della scollatura dell’abito sacerdotale. L’olio nel suo fluire incontra qui il pettorale del sommo sacerdote, composto tra l’altro da 12 pietre preziose, riferite alle 12 tribù d’Israele. E’ il pettorale che simboleggia l’unità del popolo di Dio.

L’olio, fluendo lungo la veste, scende sul pettorale, sul popolo raccolto nella liturgia del Tempio: si tratta del popolo chiamato a sperimentare la gioia e la benedizione della fraternità.

I Padri rileggono l’immagine dell’olio in un orizzonte cristologico ed ecclesiale.

Per Atanasio: «Quando la Chiesa sarà riunita e formerà un’unica assemblea, l’unzione dello Spirito, che unge anzitutto il capo, che è Cristo, si diffonderà in tutto il corpo, cioè a tutti quelli che, entrando nella Chiesa, avranno rivestito il Cristo (cfr Gal 3,27)».

  1. Agostino si augura che coloro che fanno vita comune, siano «innamorati della bellezza spirituale ed esalanti dalla loro santa convivenza il buon profumo di Cristo» (Regola 8,2).

La rugiada per gli Israeliti resta una realtà di cui s’ignora l’origine. Si pensava che scendesse dal cielo come la pioggia («Dove il cielo stilla  rugiada», Dt 33,28). Viene associata anche alla parola di Dio: «Scorra come pioggia la mia dottrina, stilli come rugiada il mio dire (Dt 32,2).

La rugiada è simbolo poi di benedizione e fecondità: «Benedetta dal Signore la sua terra! Dalla rugiada abbia il meglio dei cieli», così Mosè benedice Giuseppe in Dt 33,13. E la benedizione d’Isacco a Giacobbe: «Dio ti conceda rugiada dal cielo e terre grasse, frumento e mosto in abbondanza» (Gn 27,28).

Infine la rugiada diventa immagine stessa del Dio benedicente: «Sarò come rugiada per Israele; fiorirà come un giglio e metterà radici come un albero del Libano, si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’ulivo e la fragranza del Libano» (Os 14,6-7).

In Is 26,19 la rugiada è associata alla luce e alla vita: «Ma di nuovo vivranno i tuoi morti, risorgeranno i miei cadaveri risorgeranno! Svegliatevi ed esultata voi che giacete nella polvere. Sì, la tua rugiada è rugiada luminosa, la terra darà alla luce le ombre».

Meditiamo la Parola

Nel salmo 133 possiamo individuare tre linee che convergono a tracciare il percorso di una esistenza fraterna.

Le prime due, una linea orizzontale e una verticale, evidenziano un profondo rapporto fra benedizione e vita fraterna, nel senso che la vita fraterna è frutto della benedizione di Dio, che, come l’olio e la rugiada, discende dall’alto (linea verticale) e nel senso che è il luogo di riconoscimento e di assaporamento della benedizione di Dio (linea orizzontale).

Le due linee non corrono parallele, ma s’intersecano, si coappartengono, nel senso che l’una non sussiste senza l’altra: la benedizione di Dio crea lo spazio della fraternità, a sua volta la fraternità diventa il luogo dove è possibile fare esperienza della benedizione di Dio.

Questa dinamica è espressa dalle stesse immagini usate dal salmo: l’olio e la rugiada, discendono e si espandono, si allargano riempiendo di sé quanto viene incontrato. Così è la benedizione di Dio: discendendo si espande e crea lo spazio della fraternità, diventa dimora per un vivere insieme da fratelli.

Alla luce di questo tema possiamo rileggere un testo evangelico che tratta della fraternità: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono in mezzo a loro» (Mt 18,20).

Il contesto della riunione fraterna è costituito dalla preghiera. L’unità dei discepoli inoltre va probabilmente riferita al testo precedente dove si descrive la procedura della correzione fraterna nei confronti di un fratello peccatore (vv 15-17). Quando l’intervento correttivo, nelle diverse tappe previste dal testo, risultasse inefficace, è ancora possibile un passo ulteriore, accordarsi per chiedere qualunque cosa al Padre e «il Padre mio che è nei cieli gliela concederà» (Mt 18,19).

La comunità diventa rivelazione di Dio, luogo della manifestazione della sua benedizione, a condizione che sia una fraternità, aperta nei confronti del peccatore e del nemico, di colui che si è separato da essa. La comunità concorde nella compassione e nella misericordia per il fratello peccatore, diventa segno della benedizione di Dio che ricostruisce la fraternità fra gli uomini infranta dal peccato, come scrive S. Agostino: «La misericordia divina ha radunato da ogni luogo i frammenti, li ha fusi al fuoco della sua carità e ricostituito la sua unità infranta […] E’ così che Dio ha rifatto ciò che aveva fatto, ha riformato ciò che aveva formato»[1].

La terza linea riconoscibile nel salmo fa riferimento alla relazione personale con noi stessi, a quel “punto vergine” (T. Merton) di ogni uomo che è il cuore, dove possiamo fare unità in noi stessi, per costruirla attorno a noi. Si tratta di scendere nel profondo di noi stessi, appunto nel nostro cuore.

Questo movimento può essere illustrato da due temi propri della tradizione monastica, condivisibili anche da chi non è monaco: la stabilitas e l’habitare secum.

La stabilitas è l’impegno a rimanere stabilmente con i fratelli della propria comunità. Non si tratta semplicemente di una stabilità geografica, quanto di fedeltà ai fratelli (stabilitas fratrum) che consente di guadagnare un cuore stabile, animato da un amore fedele e perseverante (stabilitas cordis).

L’habitare secum è un’espressione di Gregorio Magno, tradotta da Paolo VI con: «L’uomo che abita presso di sé è l’uomo ricuperato a se stesso»[2].

Il dono della benedizione e della pace che viene da Dio giunge alla comunità per la via del cuore di ogni fratello, a condizione che questo sia un cuore pacificato, unificato. Si dà uno stretto rapporto, una coappartenenza, tra l’abitare con se stessi (il cuore unificato) e l’abitare con i fratelli (l’unità con i fratelli). E il rapporto si snoda dal cuore delle persone verso la comunità e dalla comunità verso il cuore delle persone.

La vita fraterna è autentica se sa conferire armonia, pacificazione alla vita delle persone, al loro cuore. Ricorrendo all’immagine del salmo: l‘olio che si riversa come benedizione di Dio e che può essere assaporato nella vita fraterna, rende la nostra esistenza unguento prezioso e profumato.

Riprendiamo le parole di Papa Francesco. Il Papa identifica il presbiterio, dove si vive insieme da fratelli, come un “cenacolo”. Il cenacolo è il luogo di una comunicazione non convenzionale, ma profonda e piena di fiducia. Pensiamo al tipo di comunicazione che Gesù ha attivato con i discepoli in quella sala, dove si erano radunati per celebrare la Pasqua, a poche ore dalla sua “partenza”.

Nelle parole del Papa ritroviamo i frutti della fraternità

  • la libertà da quel ripiegamento su se stessi imposto dai narcisismi e dalle gelosie, frequente tra di noi
  • le condizioni di un’effettiva e buona comunicazione, quali la stima e il sostegno reciproco
  • lo stupore e il fascino di fronte a una realtà che spesso si ritiene impossibile da realizzare, che resta prigioniera del sogno (“un profumo di profezia che stupisce e affascina”)

Tutto questo, a condizione che, sempre secondo Papa Francesco, la fraternità non sia un’esperienza saltuaria (“non sia vissuta in maniera occasionale”), né puramente funzionale al fare del ministero (“in forza di una collaborazione strumentale”).

Proviamo a individuare

  • quelle espressioni di frantumazione interiore, che rendono difficile o, addirittura, impediscono le relazioni fraterne;
  • quelle fedeltà, gli atteggiamenti di perseveranza che ci possono rendere stabili nelle nostre relazioni con i fratelli.

[1] S. AGOSTINO, In psalm 58, 10, PL 36, 698.

[2] PAOLO VI, Allocuzione del 24 ottobre 1964, in AA SS 56 (1964) 983-989.

Ci siamo chiesti quale sia la ragione ultima del donarsi del nostro presbitero. Quanta tristezza fanno coloro che nella vita stanno sempre un po’ a metà, con il piede alzato! Calcolano, soppesano, non rischiano nulla per paura di perderci… Sono i più infelici! Il nostro presbitero, invece, con i suoi limiti, è uno che si gioca fino in fondo: nelle condizioni concrete in cui la vita e il ministero l’hanno posto, si offre con gratuità, con umiltà e gioia. È uomo della Pasqua, dallo sguardo rivolto al Regno, verso cui sente che la storia umana cammina, nonostante i  ritardi, le oscurità e le contraddizioni. Il Regno – la visione che dell’uomo ha Gesù – è la sua gioia, l’orizzonte che gli permette di relativizzare il resto, di stemperare preoccupazioni e ansietà, di restare libero dalle illusioni e dal pessimismo; di custodire nel cuore la pace e di diffonderla con i suoi gesti, le sue parole, i suoi atteggiamenti.

 La scelta totale di Cristo e le difficoltà della missione

(Fil 1,12-30)

12 Desidero che sappiate, fratelli, come le mie vicende si siano volte piuttosto per il progresso del Vangelo, 13 al punto che, in tutto il palazzo del pretorio e dovunque, si sa che sono prigioniero per Cristo. 14 In tal modo la maggior parte dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, ancor più ardiscono annunziare senza timore la Parola. 15 Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. 16 Questi lo fanno per amore, sapendo che io sono stato incaricato della difesa del Vangelo; 17 quelli invece predicano Cristo con spirito di rivalità, con intenzioni non rette, pensando di accrescere dolore alle mie catene. 18 Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per convenienza o per sincerità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene. 19 So infatti che tutto questo servirà alla mia salvezza, grazie alla vostra preghiera e all’aiuto dello Spirito di Gesù Cristo,           20secondo la mia ardente attesa e speranza che in nulla rimarrò deluso; anzi nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. 21 Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. 22 Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. 23 Sono stretto infatti tra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; 24 ma per voi è necessario che io rimanga nel corpo.

25 Persuaso di questo, so che  rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a tutti voi per il progresso e la gioia della vostra fede, 26 perché il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo, con la mio ritorno fra voi. 27 Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo, perché, sia che io venga e vi veda, sia che io rimanga  lontano, abbia notizie di voi: che state saldi in un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del Vangelo, 28 senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari. Questo è per loro un segno di perdizione, per voi invece di salvezza, e ciò da parte di Dio. 29 Perché, riguardo a Cristo,  a voi è stata data la grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, 30 sostenendo la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e sapete che sostengo anche ora.

Leggiamo il testo

La composizione del brano

  • Paolo dà notizie ai cristiani di Filippi sulla sua situazione e confida loro i sentimenti che lo animano in prigione (vv 12-26)
  • Segue un’esortazione che riguardo la lotta per la fedeltà al vangelo di fronte alle pressioni e alle ostilità esterne (vv 27-30).
  1. Paolo apre il proprio cuore, mosso da desiderio di far conoscere ai Filippesi non solo le “sue vicende”, ma anche come queste abbiano costituito un’occasione propizia “per i progresso del Vangelo” e per l’impegno “nell’annunciare senza timore la Parola” da parte “della maggior parte dei fratelli nel Signore”. L’arresto e l’imprigionamento di Paolo, invece di bloccare il cammino del Vangelo, lo ha fatto progredire e, invece di intimidire i credenti, li ha ulteriormente spronati ad annunciare la Parola.

A questo punto l’Apostolo denuncia una situazione non del tutto positiva (vv 15-17): se alcuni predicano Cristo “con buoni sentimenti” e “per amore di Paolo”, in ragione del suo mandato (“incaricato della difesa del Vangelo”), altri predicano Cristo “per invidia e spirito di contesa… con spirito di rivalità, con intenzioni non rette”, contro l’Apostolo (“pensando di accrescere dolore alle mie catene”).

La reazione di Paolo nei confronti di chi predica il Vangelo di Gesù non con retta intenzione: “Ma questo che importa? “Paolo, non solo non resta turbato da questa ostilità nei suoi confronti, ma, addirittura, se ne rallegra (“io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene”) e ne indica il motivo: “perché in ogni maniera, per convenienza e per sincerità, Cristo venga annunciato”.

Lo sguardo sul futuro (vv 19-20): l’Apostolo è sereno sul proprio futuro che potrebbe riservargli la morte, perché può contare sulla preghiera dei Filippesi (“grazie alla vostra preghiera”) e sull’ “aiuto dello Spirito di Gesù Cristo”; inoltre “ha piena fiducia” che comunque vadano le cose (”sia che io viva sia che io muoia”), Gesù Cristo sarà annunciato (“sarà glorificato”).

Nello sguardo sul proprio futuro l’Apostolo ha un punto fermo: “Per me infatti vivere è Cristo e il morire un guadagno”. Come a dire: “Per me è vita vera e autentica l’esistere unito a Cristo e con Cristo”.

A partire da questo punto fermo la vita terrena e il morire vengono radicalmente relativizzati, anche se il desiderio dell’Apostolo è segnato da un dilemma: morire o continuare a vivere? Morire significherebbe “lasciare questa vita per essere con Cristo”; una prospettiva che attrae Paolo (“il che sarebbe assai meglio”). D’altra parte, proseguire la vita sulla terra sarebbe un vantaggio per la comunità di Filippi (“per voi è più necessario che io rimanga nel corpo”).

Paolo riconosce di sentirsi “stretto” fra le due soluzioni – desiderare il meglio per sé oppure il più necessario per la comunità di Filippi – e di “non saper davvero cosa scegliere”. Finalmente la situazione di incertezza viene superata e l’Apostolo propende per la seconda soluzione: “Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a tutti voi per il progresso e la gioia della vostra fede”.

  1. L’esortazione è introdotta con un invito di principio: “Comportatevi dunque in modo degno del Vangelo di Gesù” (cfr 1Ts 2,12; Rm 16,2). Paolo esorta i Filippesi a essere coerenti con la scelta di adesione al Vangelo. Nelle concrete circostanze in cui si trova la comunità di Filippi il comportamento coerente significa saldezza e unanimità nella lotta per la fede e la causa del Vangelo di fronte agli avversari (“state saldi in un solo spirito e combattete unanimi per la fede del Vangelo, senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari”).

L’Apostolo lega l’impegno della comunità per restare fedele al Vangelo alla grazia di Dio (“per voi è stata data la grazia non solo di credere in lui [Cristo], ma anche di soffrire per lui”) e alla sua stessa lotta (“sostenendo la stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora”).

Meditiamo la Parola

Se dovessimo condensare in un titolo il senso del racconto autobiografico di Paolo, potremmo suggerire questo: il desiderio che unifica la vita e il ministero.

Duplice la direzione del desiderio di Paolo: la cura del vangelo di Gesù e la cura della fede della comunità.

La cura del vangelo di Gesù

A monte di questa cura sta l’esperienza che Gesù costituisce il “vivere” stesso dell’Apostolo, la ragione e il senso della sua esistenza. Si tratta di un’esperienza “forte”, tanto da alimentare il desiderio di “lasciare questa vita” per “essere con Cristo”.

La cura del Vangelo suggerisce a Paolo una lettura, diversa da quella che normalmente è fatta, delle situazioni che a prima vista sembrano costituire un ostacolo alla diffusione del vangelo di Gesù (la prigionia, le cattive intenzioni di alcuni predicatori). Più che un ostacolo queste situazioni sono vissute dall’Apostolo come opportunità per dire il vangelo di Gesù.

La cura della fede della comunità

Paolo desidera che la comunità di Filippi non resti estranea alla sua vicenda (l’arresto e l’imprigionamento), conosca come lui vive la sua drammatica situazione (occasione per annunciare il vangelo di Gesù e motivo di coraggio per testimoniare il vangelo da parte di molti credenti di Filippi), sappia come è decisivo il suo apporto per la sua vicenda e la sua speranza (“grazie alla vostra preghiera”).

L’apostolo inoltre desidera continuare a lavorare “per il progresso e la gioia della fede” dei cristiani di Filippi.

Infine Paolo aiuta la comunità a leggere il momento difficile che sta attraversando (la presenza di avversari che potrebbero intimidire la comunità) come “grazia” donata dal Signore e occasione di condivisione del suo stesso servizio al vangelo (“sostenendo la stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora”).

Dal nostro testo emerge che il desiderio di Paolo unifica la sua vita e il suo ministero, non perché semplifi-ca la complessità dell’esistenza e del ministero dell’Apostolo, ma perché consente di abitare la complessità e la difficoltà delle situazioni, di esercitare il ministero anche in condizioni che sembrano proibitive, insostenibili.

Paolo appare una persona “unificata”, in grado di affrontare le situazioni diverse, anche quelle che sembrano le più minacciose per la propria persona, lontane e impermeabili al vangelo, senza perdere la serenità interiore, la speranza, per sé e per il vangelo, e senza venir meno al proprio ministero di pastore.

A tenere unificato Paolo è la relazione con Gesù, alimentata dal convincimento che Gesù rappresenta il tutto, la ragione di vita, il contenuto stesso della sue esistenza (“per me vivere è Cristo”), una relazione nella quale Gesù non trattiene presso di sé Paolo, ma lo manda ai cristiani di Filippi, perché si prenda cura della loro fede, della loro relazione con Lui.

Un altro testo illumina la relazione tra Paolo e Gesù: «Sono stato crocifisso con Cristo e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Commenta  Benedetto XVI:

«Paolo, prima della conversione non era stato un uomo lontano da Dio e dalla sua Legge. Al contrario, era un osservante, con una osservanza fedele fino al fanatismo. Nella luce dell’incontro con Cristo capì, però, che con questo aveva cercato di costruire se stesso, la sua propria giustizia, e che con tutta questa giustizia era vissuto per se stesso. Capì che un nuovo orientamento della sua vita era assolutamente necessario. E questo nuovo orientamento lo troviamo espresso nelle sue parole: “Questa vita che io vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Paolo, quindi, non vive più per sé, per la sua propria giustizia. Vive di Cristo e con Cristo: dando se stesso, non più cercando e costruendo se stesso. Questa è la nuova giustizia, il nuovo orientamento donatoci dal Signore, donatoci dalla fede. Davanti alla croce del Cristo, espressione estrema della sua autodonazione, non c’è nessuno che possa vantare se stesso, la propria giustizia fatta da sé, per sé!…L’identità cristiana descritta da S. Paolo nella propria vita…si compone proprio di due elementi: questo non cercarsi da sé, ma riceversi da Cristo e donarsi con Cristo, e così partecipare personalmente alla vicenda di Cristo stesso fino ad immergersi in Lui e a condividere tanto la sua morte quanto la sua vita»[1].

Col passare del tempo la relazione con Gesù, nata dall’incontro singolare sulla strada per Damasco, che ha conferito all’esistenza di Paolo un nuovo “centro affettivo” (Gesù e la sua Chiesa) e dischiuso un nuovo interesse (il vangelo di Gesù, le comunità dei cristiani), non appare sbiadita, logorata dalle fatiche di un ministero generoso e oneroso, anzi conserva freschezza e la capacità di sostenere Paolo, di alimentare la sua speranza e motivare un ministero che sembra pesantemente ostacolato dalle situazioni, personali e comunitarie. Anche in queste situazioni Paolo non si muove come un pastore deluso, ma pieno di speranza e di amore, per il Signore e per la sua gente.

Paolo e noi

Il nostro ministero appare sempre più complesso e oneroso; un ministero che ci fa incontrare situazioni che sembrano bloccarlo, sterilizzarlo; un ministero che desideriamo ricondurre all’essenziale.

L’apostolo Paolo ci offre un suggerimento prezioso: ci invita a prenderci cura della relazione con Gesù, nella consapevolezza che questa relazione ci rende persone “unificate”, persone cioè che “non cercano se stesse, “non si cercano da sé”, ma “si ricevono da Cristo”, ricevono le persone dal Signore, le guardano, s’interessano a loro, si prendono cura di loro, come le guarda, s’interessa a loro, si prende cura di loro il Signore.

Persone “unificate” perché non distinguono troppo in fretta fra situazioni favorevoli a un esercizio fecondo e soddisfacente del ministero e situazioni sfavorevoli, insostenibili, ma imparano ad abitare, ad affrontare tutte le situazioni (personali, ecclesiali, epocali) considerandole un’opportunità “per il progresso del vangelo”.

Paolo ci invita a non scegliere tra la cura della relazione con il Signore e il prodigarsi in un servizio generoso per la nostra gente, ma a consentire alla prima di alimentare e sostenere il secondo.

[1] BENEDETTO XVI, Paolo, l’apostolo delle genti, ed. S. Paolo 2008, 28-29.

“Tutto io faccio per il vangelo”

(1Cor 9,16-23)

16Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! 17Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. 18Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo. 19Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: 20mi sono fatto come Giudeo per i Giudei, per guadagnare i Giudei. Per coloro che sono sotto la Legge – pur non essendo io sotto la Legge – mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge. 21Per coloro che non hanno Legge – pur non essendo io senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo – mi sono fatto come uno che è senza Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono senza Legge. 22Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. 23Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.

 Leggiamo  il testo

Il contesto del nostro brano é rappresentato dal cap 9 dove Paolo parla di sé per difendersi dagli attacchi da parte di imprecisati avversari («Questa è la mia difesa contro quelli che mi accusano», v 3). Gli avversari di Corinto ne­gano che Paolo sia un apostolo («Non sono forse libero, io? Non sono un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore? Anche se per altri non sono apostolo, per voi al­meno lo sono; voi siete il sigillo del mio apostolato nel Signore», vv 1-3a).

L’apostolo si difende facendo riferimento a un’apparizione di Cristo Risorto («Non ho veduto Gesù, Signore nostro?») e alla propria azione evangelizza­trice («Voi siete il sigillo del mio apostolato nel Signore»). Dividiamo il brano in due parti:

– vv 16-18: Paolo evidenzia l’irresistibile potenza del vangelo nella sua vita. Non è stato lui a decidere di mettersi al suo servizio, ma è stato anticipato dal vangelo stesso: «Si può dire che l’annunziatore si can­cella come pro­tagonista davanti all’annunzio e alla sua potenza trascinatrice» (G. Barbaglio).

Da qui la conclusione di escludere ogni vanto, di rinunciare a rivendicare una giusta ricompensa (quella di farsi mantenere dalla comunità), se non quella di «predicare gratuitamente il vangelo».

– vv 19-23: l’Apostolo approfondisce il motivo dell’incondizionata disponibilità, della sua libertà di apostolo, per il vangelo: non una libertà da utilizzare a proprio vantaggio, ma per il servizio. Fino al punto di farsi ”servo di tutti”, per “guadagnarne il maggior numero”.

All’affermazione generale seguono le esemplificazioni paradigmatiche: con i giudei, legati alle prescrizioni della legge mosaica, Paolo vive da giudeo os­servante; con i pagani, che non conoscono la legge mosaica e, per questo, sono “senza legge”, vive come un senza legge, precisando però di essere “nella legge di Cristo”; con i deboli (le coscienze deboli, timorose) si fa lui pure debole.

Riassumendo Paolo afferma: «Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni co­sto qualcuno».

Il v 23 ribadisce la preoccupazione per l’accoglienza del vangelo da parte degli altri, con un’aggiunta che sposta l’attenzione all’adesione personale («per diven­tarne partecipe con loro»).

Paolo si sente impegnato a una fedeltà personale di adesione, non solo a una fedeltà funzionale alla missione rice­vuta; per lui non si dà separazione della propria salvezza dalla missione di testimone del vangelo. Si salva annunciando il vangelo-che-salva.

 Meditiamo la Parola

Nel nostro testo evidenziamo due piste.

Il servizio al vangelo come “buona” ragione della propria vita

Per Paolo predicare il vangelo non è una delle tante occupazioni della vita, ma il servizio che “riempie” l’intera sua esistenza, ne raccoglie gli interessi. L’Apostolo vive tale servizio come obbedienza, libera risposta al dono ri­cevuto (il vangelo). Ai cristiani di Roma si presenta come “servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione”(Rm 1,1) e aggiunge che: “Per mezzo di lui [Cristo] abbiamo ricevuto la grazia dell’apostolato per ottenere l’obbedienza alla fede da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome” (Rm 1,5). Infine considera il servizio al vangelo non solo funzionale al bene degli uomini, ma anche come luogo della propria santificazione (v 23).

La coscienza di Paolo ci aiuta a riscoprire il senso del servizio del vangelo nella nostra esistenza di presbiteri, a istruire la nostra coscienza, ridefinire i nostri at­teggiamenti di fronte a questo servizio.

  • Il servizio del vangelo coincide con la nostra stessa esistenza credente, che si esprime secondo la particolare determinazione della “consacrazione”. Tale servi­zio non è una realtà “in più” o parziale nella vita di una persona consa­crata, ma di­mensione essenziale, permanente, totalizzante, che dà signifi­cato all’intera esi­stenza, la riempie, la struttura. «Per i consacrati, non c’è missione che non si radichi nella loro consacrazione e non c’è consacra­zione che non si dispieghi nella loro missione» (J. Aubry). Consacrarsi a Dio con “cuore indiviso” – unificato attorno al Signore – comporta il lasciarsi mandare da Lui agli uomini come segno del suo amore per loro.
  • La cura del vangelo non sta sotto il segno di una decisione, unilate­ral­mente presa da noi, ma del dono ricevuto, dell’essere mandati, di fronte al quale ci di­sponiamo liberamente nell’obbedienza della fede. Per questo non può essere vissuta come “vanto”, come credenziale del proprio buon cuore, della propria capacità di vo­ler/fare bene, ma come “dovere”, come responsabilità per il dono rice­vuto, rispo­sta riconoscente a quanto ci è stato donato.
  • Se il servizio del vangelo è vissuto con questa consapevolezza, cioè come ri­sposta grata e senza riserve al dono ricevuto (il vangelo, la fede, la vocazione), di­venta occasione di santificazione, di conformazione a Cristo, modalità concreta con cui interpretare la nostra esistenza di credenti.

Ci chiediamo

  • vivo il servizio, la testimonianza del vangelo con la coscienza di Paolo?
  • Dove mi trovo ancora distante da questa coscienza e per quale ragione?

Un atteggiamento spirituale: «tutto io faccio per il vangelo»

Il senso dell’affermazione paolina: «qualsiasi cosa io faccia, la faccio per il van­gelo, a causa del vangelo». Il vangelo, il servizio del vangelo, diven­tano nella vita dell’Apostolo, nella sua esperienza di credente, l’elemento unifi­cante, il “centro” at­torno al quale la sua complessa, impegnativa, esistenza viene raccolta; diventano la ragione che ispira, l’obiettivo che orienta le scelte, gli atteggiamenti, le azioni.

Consideriamo alla luce di questa affermazione due altri testi paolini:

Il primo: «Infatti pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guada­gnarne il maggior numero» (v 19).

L’Apostolo rivendica la libertà, non per utilizzarla a proprio vantaggio, ma per impegnarla a favore del vangelo, dando così concreta attuazione a quanto scrive nella lettera ai Galati: «Voi infatti, fratelli, siete stati chia­mati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (5,13).

Paolo vive la decisione di essere “servo di tutti” entrando nella situazione con­creta delle persone (cfr. vv 20-22), assumendola personalmente, solidariz­zando con essa.

In questa decisione fa proprio lo stile con cui Gesù incontrava le persone, lo stile dell’ospitalità. Quelle che Gesù vive con le persone sono relazioni “ospitali”, dove si trovano insieme la solidarietà con le persone e l’offerta generosa (“eccedente”) di un amore che rilancia la vita, perché la risana (cfr le guarigioni), la riscatta dal male (cfr la remissione dei peccati, la risurrezione da morte) e responsabilizza nuovamente le persone (cfr l’invito a non peccare più).

Lo stile della relazione ospitale deve caratterizzare la nostra testimonianza di cristiani, il nostro ministero di presbiteri, la quale non si appiattisce sullo stile mondano, in quanto afferma la “differenza cristiana”, ma nemmeno resta estranea, ostile al vita degli uomini e delle donne d’oggi, in quanto esprime “la differenza cristiana” non per “contrapposizione”, ma per “relazione”.

La testimonianza che emerge è quella che sa custodire e proporre senza timore l’ “eccedenza” della speranza cristiana, portando nel cuore il desiderio di vita di ogni uomo.

Un testo della prima lettera ai Tessalonicesi (2,1-12), dove Paolo parla del proprio ministero in quella comunità, indica in modo puntuale lo stile della relazione ospitale, espresso dall’Apostolo:

«1Voi stessi infatti, fratelli, sapete bene che la nostra venuta in mezzo a voi non è stata inutile. 2Ma, dopo aver sofferto e subito oltraggi a Filippi, come sapete, abbiamo trovato nel nostro Dio il coraggio di annunciarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte. 3E il nostro invito alla fede non nasce da menzogna, né da disoneste intenzioni e neppure da inganno; 4ma, come Dio ci ha trovato degni di affidarci il Vangelo così noi lo annunciamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori. 5Mai infatti abbiamo usato parole di adulazione, come sapete, né abbiamo avuto intenzioni di cupidigia: Dio ne è testimone. 6E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri, 7pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. 8Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari. 9Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio. 10Voi siete testimoni, e lo è anche Dio, che il nostro comportamento verso di voi, che credete, è stato santo, giusto e irreprensibile. 11Sapete pure che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, 12vi abbiamo incoraggiato e scongiurato di comportarvi in maniera degna di Dio, che vi chiama al suo regno e alla sua gloria».

Dal testo emerge che Paolo vive con la comunità di Tessalonica una bella e intensa relazione, ispirata non dalla ricerca di un consenso da parte degli uomini (“non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio”), né di un loro riconoscimento (“neppure abbiamo cercato la gloria degli uomini”), ma da una profonda affezione (“Così affezionati a voi… ci siete diventati cari”) e dal desiderio di dare “non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita”. Affezione e desiderio che conducono l’Apostolo a essere “amorevole” in mezzo ai Tessalonicesi “ come una madre nutre e ha cura delle proprie creature” e a “esortare, incoraggiare” come “fa un padre verso i propri figli”.

Ci chiediamo: il servizio del vangelo di Gesù

  • Unifica realmente la mia esistenza di cre­dente-prebitero?
  • Riplasma la mia libertà, il mio cuore, perché possa ac­costare le persone, che vivono situazioni diverse, complesse, non emotivamente, sbrigati­vamente, ma da credente, che serve il vangelo di Gesù, la “buona notizia” destinata a ogni uomo?
  • Motiva e sostiene la vigi­lanza, l’impegno ascetico nella mia esistenza, perché non mi trovi distante dal van­gelo che testimonio e la mia persona non costituisca un ostacolo all’annuncio del vangelo?

Celebrazone penitenziale

Crea in me un cuore puro

(Sal 51)

1Al maestro del coro. Salmo. Di Davide

 2Quando il profeta Natan andò da lui, che era andato con Betsabea.

3Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;

nella tua grande misericordia

cancella la mia iniquità.

4Lavami tutto dalla mia colpa,

dal mio peccato rendimi puro.

5Sì, le mie iniquità io le riconosco,

il mio peccato mi sta sempre dinanzi.

6Contro di te, contro te solo ho peccato,

quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto:

così sei giusto nella tua sentenza,

sei retto nel tuo giudizio.

7Ecco, nella colpa io sono nato,

nel peccato mi ha concepito mia madre.

8Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo,

nel segreto del cuore mi insegni la sapienza.

9Aspergimi con rami d’issopo e sarò puro;

lavami e sarò più bianco della neve.

10Fammi sentire gioia e letizia:

esulteranno le ossa che hai spezzato.

11Distogli lo sguardo dai miei peccati,

cancella tutte le mie colpe.

  

12Crea in me, o Dio, un cuore puro,

rinnova in me uno spirito saldo.

13Non scacciarmi dalla tua presenza

e non privarmi del tuo santo spirito.

14Rendimi la gioia della tua salvezza,

sostienimi con uno spirito generoso.

15Insegnerò ai ribelli le tue vie

e i peccatori a te ritorneranno.

16Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza:

la mia lingua esalterà la tua giustizia.

17Signore, apri le mie labbra

e la mia bocca proclami la tua lode.

18Tu non gradisci il sacrificio;

se offro olocausti, tu non li accetti.

19Uno spirito contrito è sacrificio a Dio;

un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi.

20Nella tua bontà fa’ grazia a Sion,

ricostruisci le mura di Gerusalemme.

21Allora gradirai i sacrifici legittimi,

l’olocausto e l’intera oblazione;

allora immoleranno vittime sopra il tuo altare.

Leggiamo il testo

Il tema del salmo è «il peccato dell’uomo nel quadro della misericordia di Dio»[1]. La S. Scrittura parla del peccato dell’uomo in riferimento alla misericordia di Dio (cfr Es 34, 6-7: «Il Signore passò davanti a lui [Mosè] e gridò: “Signore, Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato»).

Il credente esperimenta insieme la realtà del proprio peccato e quella della misericordia di Dio, ritrovando, così, il coraggio della verità e la serenità e la gioia del perdono. Diversamente, chi non tiene conto della misericordia di Dio finisce per cadere nella paralizzante angoscia del peccato (cfr 1Gv 3,20: «Dio è più grande del nostro cuore»); chi non riconosce la serietà del proprio peccato vive nella menzogna (cfr. 1Gv 1,8-10: «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non aver peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi»).

La “nota introduttiva” (vv 1-2) suggerisce un collegamento tra il salmo e un episodio della vita del re Davide (cfr 2Sam 11-12). Davide s’invaghisce di Bestabea, moglie di Uria, un soldato che si trova in guerra per il suo re. Quando la donna resta incinta, Davide tenta, dapprima, di combinare un incontro tra Uria e Betsabea, richiamandolo dal fronte; poi, di fronte al rifiuto di Uria di incontrare la moglie, si sbarazza di lui, rispedendolo al fronte con una lettera al comandante delle truppe, dove da’ disposizione che Uria sia tolto di mezzo (cfr 2Sam 11,15).

Davide non prova alcun disagio a comandare l’eliminazione di Uria, soltanto dopo l’aspro rimprovero del profeta Natan (cfr 2Sam 12,7) riconoscerà la gravità di quanto ha compiuto.

La vicenda di Davide mostra che è la parola di Dio a svelare la natura del peccato, che solo l’incontro con Dio consente di cogliere la portata del proprio peccato: così è per Adamo (cfr Gn 3,10), per Isaia (cfr Is 6), per Pietro (cfr Lc 5,8), per Zaccheo (cfr Lc 19,8), per Paolo (cfr At 9,8).

Le definizioni del peccato dell’uomo

v 3: «Cancella la mia iniquità». Qui “peccato” traduce il termine ebraico fesha’, che esprime l’idea di ostilità e di rancore, una specie di ribellione, di tradimento. La parola usata nei confronti di Dio fa pensare a una relazione (alleanza) tra Dio e l’uomo, di cui il peccato è rottura, abbandono, infedeltà (cfr Is 1,2-3: «Udite, o cieli, ascolta, o terra, così parla il Signore: ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone; ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende»). A determinare il tradimento d’Israele è la sua ingratitudine nei confronti di Jahvè.

v 4: «Lavami tutto dalla mia colpa». La parola “colpa” traduce l’ebraico ‘awon, che indica maggiormente la situazione del peccatore: una situazione disordinata, contorta, pesante, che schiaccia la persona (cfr. Sal 38,5: «Le mie colpe hanno superato il mio capo, sono un carico per me troppo pesante»).

v 5: «Il mio peccato mi sta sempre dinanzi». Il termine ebraico è chatta, che significa “sbaglio”, sbagliare il bersaglio, non raggiungerlo. Il senso è quello di un’azione mancata, fallimentare: il peccatore ritiene di raggiungere lo scopo, di guadagnare la meta, in realtà la manca, va incontro alla delusione.

Il peccato determina vuoto e delusione nel peccatore (cfr la delusione del figlio che abbandona la casa del padre, in cerca di una maggiore libertà e, trova, invece, la fame e un lavoro degradante [Lc 15]) e in Dio, il quale si aspetta dall’uomo una risposta positiva che invece non arriva (cfr l’allegoria della vigna in Is 5,4.7: «Perché mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi?…Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi»).                         In conclusione «il peccato delude Dio e l’uomo»[2].

Le definizioni della misericordia di Dio

 v 3: «Pietà di me, o Dio, nella tuo amore, nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità». Risaliamo ai corrispondenti termini ebraici.

“Pietà”→ hanan: indica il gesto di chi abbassa lo sguardo verso chi sta in basso, verso un suddito. Un gesto che indica gratuità ed esprime «quella signorile discrezione che non fa pesare il gesto che compie e non fa abbassare lo sguardo di chi lo riceve»[3].

“Amore”→ hesed indica l’atteggiamento da assumere tra persone strette da un legame. Si potrebbe tradurre con “solidarietà fedele”, addirittura con “solidarietà ostinata”. Quella di Dio appare solidarietà ostinata nei confronti dell’uomo peccatore, anche se l’uomo viene meno.

“Misericordia”→ rahamin fa riferimento al grembo materno ed evoca quella ricchezza di emotività, ostinazione e tenerezza che caratterizzano l’amore di una madre. Si potrebbe tradurre con “appassionata tenerezza” come riferisce Is 49,15: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai».

L’azione della misericordia di Dio sollecitata dal salmista

 vv 3-4: tre verbi:  cancella (la mia iniquità); lavami (tutto dalla mia colpa); rendimi puro (dal mio peccato).

vv 11-12: quattro verbi:  distogli lo sguardo (dai miei peccati); cancella (tutte le mie colpe), crea in me (un cuore puro); rinnova in me (uno spirito saldo).

L’azione di Dio presenta una progressione: parte del non tener conto dei peccati, dal non considerarli (“distogli lo sguardo dai miei peccati”); prosegue con il toglierli di mezzo (“cancella la mia iniquità… tutte le mie colpe”), con la creazione di un cuore non più inquinato dalla presenza del male (“crea in me un cuore puro”) per compiersi con il mettere in condizione l’orante di prendere le distanze dal male, di non soccombere un’altra volta alle sue seduzioni (“rinnova in me uno spirito saldo”).

Il verbo “creare” traduce il verbo ebraico bara, utilizzato nella S. Scrittura per descrivere l’esclusiva e salvifica azione di Dio: la creazione dell’universo, la liberazione d’Israele dalla schiavitù, la creazione dei cieli nuovi e della terra nuova.

L’azione di Dio che “crea un cuore puro” e “rinnova uno spirito saldo”, ha a che fare con una creazione, non solo perché libera il cuore dell’uomo dal male, dalla schiavitù del male, ma anche (soprattutto) perché lo mette in condizione di sicurezza, lo rende capace di prendere le distanze dal male, di non soccombere ad esso.

Dal contesto emerge che il perdono di Dio è a un tempo gesto della sua misericordia e della sua potenza, perché libera la nostra libertà e la rende forte, capace di contrastare il male.

La misericordia riconosciuta a Dio non è solo generosa e fedele, ma anche potente, capace non solo di togliere di mezzo il peccato dell’uomo, ma anche di ricreare una libertà restituita alla sua destinazione originaria, che è quella di una disponibilità fiduciosa all’offerta di Dio.

[1] B. MAGGIONI, Davanti a Dio. I salmi 1-75, Vita e Pensiero, Milano 2001,162.

[2] ID, 159.

[3] ID, 162.