«Chi vuol salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà». Se lanciassimo un sondaggio su questa affermazione di Gesù, riportata dal vangelo appena proclamato (Mc 8,27-35), penso che registreremmo uno scarso gradimento. La ragione sta nella scelta da parte di molte persone di “salvare” (mettere in sicurezza) la propria vita a partire da se stessi, dall’ascolto dei propri bisogni, dall’assecondare i propri desideri, dalla rivendicazione dei propri diritti, dalla realizzazione dei propri progetti.
Per molte persone, inoltre, sembra che quanto propone Gesù nel vangelo, non rappresenti, complice, magari, la scadente testimonianza di chi si ritiene credente, un rassicurante investimento per la propria vita, non risulti un’affidabile risposta al desiderio di “mettere in sicurezza” (salvare) la propria vita.
La fede di tanti credenti appare priva di quelle opere che la rendono viva, apprezzabile, agli occhi del mondo; priva soprattutto dell’opera di un’esistenza pienamente compiuta, “bella, buona e felice”, proprio a motivo del vangelo, di Gesù. Tanto da meritare il giudizio severo dell’apostolo Giacomo, che abbiamo ascoltato nella seconda Lettura (Gc 2,14-18): «A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere la fede, ma non ha le opere?… la fede: se non è seguita dalle opere in se stessa è morta».
Se ascoltiamo con attenzione la parola di Gesù scopriamo che a ispirare la sua richiesta è il desiderio di “salvare” (mettere in sicurezza) la nostra vita. Gesù prende sul serio il nostro desiderio di “salvare” la vita.
Quanto è successo in questi ultimi anni, dall’epidemia di Covid alla disastrosa e drammatica alluvione che ha colpito il nostro territorio, ci convince ancora di più che la nostra è una vita da “salvare”, che è un bene da “mettere in sicurezza” su tanti versanti, sul versante sanitario, affettivo, ambientale.
Basta questo per “salvare” la vita?
Le cronache parlano di un crescente malessere che affligge la vita di tante persone, prodotto soprattutto dalla fragilità di quelle relazioni che dovrebbero metter in sicurezza (“salvare”) la nostra esistenza.
Gli esperti del comportamento umano indicano, tra le tante ragioni che spiegano questa fragilità, l’incapacità a uscire da noi stessi, a non mettere noi stessi, la nostra persona al centro della relazione con gli altri, a non sintonizzare le nostre relazioni esclusivamente sullo stare bene personale.
Gesù, con la sua vita caratterizzata da relazioni ospitali, con la sua parola che sollecita l’apertura del cuore, la cura dell’altro, rappresenta la “medicina” efficace al malessere di tanti, a un’esistenza che pensa di mettersi in sicurezza ripiegandosi su se stessa.
Se ci riconosciamo anche noi fra i tanti che patiscono questo malessere lasciamoci interpellare dalla domanda che Gesù ha rivolto ai discepoli: «Ma voi (ma tu) che dite (che dici) che io sia?» e chiediamo con fiducia al Padre che ci assista perché “crediamo con il cuore e confessiamo con le opere che Gesù è il Messia” (dalla preghiera della Colletta). E’ “Messia” perché ci consente di salvare, di “mettere in sicurezza” la nostra esistenza.