Nella preghiera iniziale rivolta al Padre avanziamo due richieste: chiediamo anzitutto di farci conoscere “il mistero della preghiera filiale” di Gesù e domandiamo in dono lo Spirito Santo.
La prima richiesta fa riferimento al “segreto” che anima, giustifica e caratterizza la preghiera di Gesù; la seconda riconosce allo Spirito Santo la competenza di ispirare una preghiera piena “della fiducia e speranza”, raccomandate da Gesù stesso e riconosciute da noi come le condizioni per “crescere nell’esperienza dell’amore” del Padre stesso.
Il vangelo (Lc 11,1-3) ci svela il “segreto” della preghiera di Gesù: la ragione per cui Gesù prega e con quale atteggiamento prega. Alla richiesta dei discepoli (“insegnaci a pregare”), Gesù propone di rivolgersi a Dio, chiamandolo con lo stesso nome con cui lui lo invoca (“Padre”, nel lingua originaria di Gesù: “Abbà”, “Papà”), di pregarlo con la stessa fiducia con cui lo prega Lui, una fiducia che si manifesta nella disposizione delle richieste: le prime richieste non riguardano i propri bisogni, ma il riconoscimento del nome affidabile di Dio (Padre), l’avvento del suo regno (l’amore che si prende cura degli uomini). Raccomanda poi di chiedere con insistenza quando si prega, non per fare pressione su un Dio reticente, un po’ distratto, ma per dare modo a un Padre di realizzare il suo desiderio di dare “cose buone” ai suoi figli, in particolare quella “cosa buona” che è lo Spirito Santo, Colui che ci suggerisce di chiamare Dio con lo stesso nome con cui lo chiama Gesù (“Abbà!”), che, proprio perché conosce il cuore paterno di Dio e il nostro cuore (“scruta” scrive l’apostolo Paolo nella Lettera in Rm 8,26-27), viene in aiuto alla nostra preghiera, facendo in modo che sia il gesto, pieno di fiducia e speranza, di coloro che si sentono amati e trattati da Dio come figli. Proprio come si è sentito amato e trattato lui.
Proprio perché lo Spirito fa della nostra preghiera un gesto di fiducia e un gesto che alimenta la speranza, lo abbiamo chiesto in dono al Padre stesso (la seconda richiesta).
Gesù insegna ai discepoli a pregare suggerendo una preghiera che si rivolge a Dio riconosciuto come “Padre”. Il riconoscimento di Dio come “Padre” indica il clima entro il quale la preghiera si svolge: il clima filiale, che fa iniziare la preghiera non parlando di noi, dei nostri problemi, delle nostre richieste, ma di Dio che è Padre. Il Padre a cui Gesù ci suggerisce di rivolgerci desidera darci cose buone.
Un monaco racconta che una giovane contadina, al servizio di un monastero, le chiedeva di insegnarle come terminare la recita del “Padre nostro”, perché, diceva: «Non riesco a terminarlo, perché da cinque anni, quando pronuncio la parola Padre e penso che lui lassù è mio Padre, piango per tutta la giornata mentre custodisco le mie mucche».
Il “Padre nostro” è la preghiera dei discepoli di Gesù: ogni battezzato la recita ogni giorno e più volte al giorno; la Chiesa non celebra la Pasqua quotidiana – la Messa – senza recitare il “Padre nostro”, che introduce la comunione eucaristica.
Il rischio è di abituarci a questa preghiera, di rivolgerci a Dio, senza stupirci nel chiamarlo “Padre”, senza cogliere il profondo e benefico legame che i contenuti della preghiera insegnata da Gesù hanno con la nostra esistenza quotidiana. Il rischio può essere evitato se impariamo a recitare “bene” il “Padre nostro”, cioè con la stessa coscienza filiale di Gesù, senza aver fretta di concludere, con il desiderio e l’impegno di trovare qui il nutrimento della nostra fede.



