La “libertà vera” e l’eredità eterna” sono le richieste fatte nella preghiera della Colletta a Dio, riconosciuto come “Padre che ci ha liberati dal peccato e ci ha donato la dignità di figli adottivi”.
La duplice richiesta è a favore di “tutti i credenti in Cristo”, Chiariamo subito che tra le due richieste c’è uno stretto legame, perché la “libertà vera”, quella che non inganna, non delude, rappresenta la destinazione definitiva della nostra esistenza (“l’eredità eterna”), un’esistenza libera dal male che la minaccia e l’avvilisce, un’esistenza da figli, come quella di Gesù Cristo nel quale crediamo.
A ispirare la richiesta non sta solo il riconoscimento che non si può vivere bene senza libertà, che la libertà è un diritto fondamentale di ogni persona, ma anche l’esperienza che ci si può ingannare riguardo a ciò che ci rende veramente liberi, che ci garantisce una libertà autentica, piena.
Di questi tempi poi c’è molta confusione riguardo alla libertà: è dichiarata universalmente come un diritto; il consenso universale viene meno quando si tratta di identificare gli indicatori della libertà vera.
Per avere un po’ più di chiarezza riguardo alla “vera libertà” accostiamo testi della parola di Dio appena proclamata. Dai testi emerge un primo e consolante dato: a Dio Padre, a Gesù stanno a cuore la nostra libertà, quella vera e si danno da fare per promuoverla.
Nella prima lettura (Is 35,4-7a) Dio invita il profeta Isaia a incoraggiare coloro che sono “smarriti di cuore”, che sono prigionieri della paura, dello smarrimento, dello scoraggiamento, con la promessa che interverrà per restituire una vita non più minacciata dal male (“egli viene a salvarvi”).
Il riferimento ai ciechi che ritornano a vedere (“si apriranno gli occhi ai ciechi”), ai sordi che saranno in grado di udire le parole (“si schiuderanno gli orecchi dei sordi”), allo zoppo che “salterà come un cervo”, alla lingua del muto che “griderà di gioia”, chiarisce che l’intervento di Dio riguarda una situazione irrimediabile da parte dell’uomo (a quei tempi la cecità e la sordità, la paralisi degli arti, l’impossibilità a parlare, erano malattie inguaribili) e che dona una reale libertà, perché mette l’esistenza delle persone nelle condizioni di esprimersi pienamente, di rifiorire (“scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa”).
Nel vangelo (Mc 7,31-37) Gesù si prende cura di un sordomuto e lo mette nuovamente in condizione di tornare a udire e a parlare; gli restituisce la vita. L’intervento di Gesù provoca stupore nelle persone presenti e il loro pieno apprezzamento («pieni di stupore dicevano: “ha fatto bene ogni cosa…”»).
Anche qui il sordomuto può rappresenta il simbolo di un sordità e di un’incapacità a comunicare, a parlare, che non segnalano solo una malattia del corpo, ma anche dell’animo.
Oggi siamo in grado di provvedere, in modo soddisfacente, a queste due malattie del corpo, ma spesso però non siamo in grado di provvedere all’incapacità di ascoltarci e di comunicare tra di noi. Comunichiamo molto tra noi, ma ci ascoltiamo poco; spesso le parole della nostra comunicazione sono parole aggressive, violente, derisorie. Siamo diventati un po’ tutti dei sordomuti.
Gesù desidera restituirci la libertà di un ascolto sereno, pieno di fiducia, una comunicazione dove le parole non sono spade che feriscono con la calunnia, il pettegolezzo, la derisione, la menzogna, ma favoriscono una reale e pacifica comunicazione, dove si condivide il proprio modo di vedere le cose, di affrontare le situazioni.
Quanto l’apostolo Giacomo scrive nella sua Lettera (II Lettura, Gc 2,1-5) rappresenta una concreta e attuale espressione di quella vera libertà donata da Dio, una libertà che ci mette al riparo dai “favoritismi personali”, (parenti stretti degli interessi personali), quelli che ispirano il nostro atteggiamento pieno di premura di fronte alle persone che contano, sono importanti, celebri e la nostra insofferenza (che si esprime molte volte con aggressioni verbali e a volte anche fisiche) di fronte a chi è povero e chiede aiuto. La denuncia di Giacomo («non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi?») non è ispirata da quel “buonismo” imputato a chi cerca di dare una mano a queste persone, ma dalla scelta di Dio (“Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo…?”).
Oggi don Mario inizia il suo ministero nel vasto territorio di Arcevia, che comprende diverse comunità parrocchiali. Un territorio diverso da quello in cui ha prestato il suo servizio fino a oggi. Se il territorio è diverso, non cambia però il servizio del pastore. Il pastore non è uno dei tanti amministratori di beni (in questo caso dei beni spirituali), ma, come scrive l’apostolo Paolo “servo di Cristo e amministratore dei misteri di Dio” (cfr 1Cor 14,1) cioè a servizio di Dio, nella guida e nell’animazione di una comunità; non un è uno dei tanti organizzatore di iniziative, né distributori dei servizi (come a volte sono intesi anche da tanti cristiani i sacramenti, le celebrazioni liturgiche), ma è il mandato da Gesù, il pastore buono, per propiziare la liberazione della vita delle persone dal male che toglie la libertà, inaridisce i cuori, per propiziare il dono di Dio, il Padre che ci “libera dal peccato e ci dona la dignità dei figli di Dio”, per ridare speranza agli smarriti di cuore.
Tu, don Mario, sii il pastore di tutti, un pastore “secondo il cuore di Gesù”, scegli sempre quello che Dio ha scelto, i “poveri agli occhi del mondo”, le persone che nella considerazione e nell’azione, purtroppo di tanti, sono trattati, per usare un’espressione di papa Francesco, come “scarti”.