Il racconto dell’evangelista Luca della morte di Gesù in croce (Lc 23,33-49), all’interno dell’ampio racconto della passione proposto nella domenica delle Palme e della passione del Signore (Lc 22,14-23,56), consente di comprendere quanto sta al cuore del Giubileo – “Gesù speranza che non delude”, come richiama papa Francesco nel Documento d’indizione dell’Anno giubilare (”Spes non confundit”).
Come Gesù, crocifisso malfattore tra due malfattori, dà speranza, a chi dà speranza e perché proprio lui, ormai prossimo alla morte, è in grado di dare speranza? La risposta alle nostre domande la troviamo nelle stesse parole di Gesù sulla croce.
La prima parola («Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno») contrasta con la serie di scherni e di richieste rivolti a Gesù da più parti – i capi del popolo, i soldati e una dei due malfattori – di “salvare se stesso” («Salvi se stesso/salva te stesso»). Gesù, invece di “salvare se stesso”, resta sulla croce assieme ai due malfattori solidale, lui “innocente (come riconosciuto dall’altro malfattore e “giusto” per il centurione, spettatore della sua morte). Con la richiesta al Padre di perdonare i suoi uccisori motivata dalla loro ignoranza («perché non sanno quello che fanno»), come se volesse scagionarli, Gesù dà speranza non solo ai suoi uccisori, ma anche a noi. Anzitutto perché lui stesso percorre per primo la strada indicata ai suoi discepoli («Amate i vostri nemici e fate del bene a quelli che vi odiano, benedite quelli che vi maledicono, pregate per quelli che vi calunniano» (Lc 6,27-38).
Le parole di Gesù mostrano, inoltre, la strada scelta da Dio per sconfiggere la violenza non è quella di un Dio, “giusto giudice” che fa giustizia dei malfattori, ma di un Dio che sconfigge la violenza opponendo ad essa non altra violenza, ma la pratica del perdono. Il perdono chiesto da Gesù dice che Dio non abbandona l’uomo, nemmeno quando gli si mette contro; dice che c’è speranza per tutti, anche per “i malfattori” (significativo che Gesù chieda il perdono del Padre “in mezzo ai malfattori”).
La seconda parola è la risposta che Gesù dà alla richiesta del malfattore di non essere dimenticato («Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno»): «In verità io ti dico: “Oggi con me sarai nel paradiso». Quelle di Gesù sono parole che promettono un futuro inimmaginabile, del tutto diverso da quello che si stava inesorabilmente delineando: «Oggi con me sarai nel paradiso». Il paradiso è stare con Gesù Cristo morto e risorto.
Nelle ultime parole, prima di spirare, Gesù “ricontatta” il Padre: «gridando a gran voce, disse: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito”». Gesù conferma nel passaggio più drammatico della sua vita, della vita di ogni persona, la sua piena fiducia nel Padre, facendo proprie le parole del salmista (cfr Sal 31,6). Tutta la sua esistenza è stata vissuta nella adesione alla volontà del Padre: ancora dodicenne, nel Tempio lo aveva ricordato ai suoi genitori, che “angosciati” lo avevano cercato per tre giorni («Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?», Lc 2,49), ora, uomo maturo lo ribadisce.
Scriverà l’Autore della Lettera agli Ebrei che Gesù «per il pieno abbandono a lui (a Dio), venne esaudito» (Eb 5,7).
Gesù può dare speranza ai suoi uccisori, al malfattore che non vuole essere inghiottito dall’oblio della morte, rappresenta per noi una speranza affidabile, che non delude, perché lui per primo ha sperato, ha affidato la sua vita al Dio che “non abbandonerà la sua vita nel sepolcro… che gli indicherà il sentiero della vita, gioia piena nella sua presenza, dolcezza senza fine alla sua destra”, Sal 15,10-1); al Padre che lo “ascolta sempre” (cfr la preghiera che rivolge al Padre in altro momento drammatico della sua vita, di fronte alla tomba dell’amico Lazzaro: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto», Gv 11,41-42).



